L’Orgoglio e L’Avidocrazia

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È una moda perversa: discutere sulla fine del mondo, accerchiando con la mediocrità del mito i massimi sistemi, per  dirottare la libera riflessione dei minimi. I sessantottini hanno contribuito a costruire l’odierna realtà, quella dell’inciviltà dei consumi, che tanto stride con l’ideale hippy e la Beat Revolution. La crisi sociale non passa solo attraverso la natura come archetipo di bellezza falciato dalla sete del business, dove il cliente sovrasta il cittadino. Abbiamo bisogno di alberi per vivere, ma i paesi sviluppati producono settecento milioni di tonnellate di residui tossici: cianuro, mercurio, arsenico e derivati del cloro, che dalle acque di scolo finiscono in mare, avvelenando la fauna e chi se ne ciba. Nessuno scienziato sa come sopravvivere alla radioattività, eppure il fondo del Baltico ha in custodia il “cuore” di molte centrali nucleari, e quantità incontrollate di plutonio. Il sinistro richiamo al dio greco dell’Inferno, Plutone, allarma quasi quanto l’indifferenza con cui i paesi sviluppati rispondono alle denunce degli ecologisti. Intere nazioni si propongono come potenze al servizio dell’atomo, e corrono il rischio di essere vendute come immondezzai. Orgoglio, o avidocratico masochismo?

Il buco nell’ozono misura quanto il Sudamerica, lo scioglimento dei ghiacci mette a repentaglio arcipelaghi e rari ecosistemi, senza contare le specie in estinzione: ogni giorno ne scompaiano circa settanta. La scienza pretende di convertire i laboratori in ventri artificiali, vendendo l’abominio della clonazione al miglior offerente. Profanare gli interstizi dove nasce la vita ha un prezzo duro solo per l’etica, e la società del successo non può sottomettere il progresso ai canoni di Hölderlin. Gli uomini non hanno diritto di sentirsi figli degli dèi, specie se qualcuno paga gli ottimisti per dire che la razza umana riuscirà ancora a imporsi sulla barbarie. Davvero un’idea geniale. Anche gli artisti incompleti ingrassano il conto corrente dei critici, che si affrettano a osannare i prodotti dei finanziatori e bocciano pezzi, quadri, libri, espressioni di reale bontà. Tant’è, i risultati si vedono. Desolanti.

Pure i giovani, che subiscono la situazione, non si arrischiano a diventare genitori. È un valore obsoleto, perduto, nel mondo che gli è stato consegnato. Poeti e intellettuali non sono più in condizione di poter considerare questa classe di sofismi. C’era una volta la voglia di muovere le mani attorno al materiale, imparando a togliere “sempre più quel distacco tra ciò che vuoi fare e ciò che fai”, come nel primo Calvino torinese; oggi si preferisce occultare il reale con l’illusione, come cercare il mare in una conchiglia. Anche la sventura è un’opportunità. Mors tua, vita mea funesta le generazioni dai tempi di Cristo, che insegnava il contrario ai suoi discepoli. Siamo troppo distanti, duemila anni dopo, e troppo indaffarati a progettare, aggiornarci, fissare obiettivi, per dargli attenzione. Senza considerare chi per scaramanzia, o per esorcizzare un ritorno alla ragione, si tocca troppo, rischiando la vista e la battuta: difficile capire come i ciechi siano ancora così pochi.