UE, lo strappo di Cameron segna il definitivo declino dell’imperialismo britannico

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Probabilmente Charles de Gaulle aveva ragione a dubitare degli inglesi. A cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta il grande statista francese si era energicamente opposto all’adesione britannica alla Comunità Economica Europea. Temeva, infatti, che i sudditi di Sua Maestà mai avrebbero davvero accettato di entrare a far parte del “progetto Europa” a tempo pieno e quindi rinunciare a una buona parte della propria sovranità. Con l’uscita dalla scena politica di de Gaulle nel 1969, venne a meno il veto francese e il Regno Unito, seppure mantenendosi sempre a debite distanze da Brussels, poté aderire all’antenata dell’Unione Europea nel 1973.

Per diverse decadi la cooperazione a distanza tra Londra e Brussels ha funzionato senza particolari intoppi politici. La creazione della moneta unica, il precursore di una maggiore integrazione europea, ha tuttavia messo alla prova le reali credenziali britanniche: fino a che punto Londra sarebbe stata disposta a cedere a Brussels lo scettro? Per una risposta è stato necessario attendere il raggiungimento dell’apice della crisi dei debiti sovrani.

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L’attuale crisi ha ribadito il concetto secondo cui l’ex impero britannico vede di cattivo occhio la necessità di eseguire il diktat europeo. Peggio ancora se a impartire gli ordini sono i rivali di sempre: Francia e Germania. Non sorprende quindi che, a distanza di anni, le frizioni tra gli inglesi e l’inedito duo franco-tedesco siano tornate in auge. In occasione del summit dell’8-9 dicembre a Brussels, il Regno Unito è stato l’unico Paese dell’Unione Europea a essersi energicamente opposto al “pacchetto salva-Europa”, una serie di misure varate dagli eurocrati per porre rimedio alla crisi del debito sovrano.

Il grande rifiuto del Regno Unito è stato giustificato da David Cameron sulla base che bene nazionale viene prima dell’interesse paneuropeo. “Ho agito per il bene del mio Paese” ha spiegato il premier, precisando di non poter votare a favore di una decisione che danneggia i propri interessi. Cameron, tuttavia, non si è né detto contrario a priori al rafforzamento dei parametri contabili e fiscali nazionali né ha messo in dubbio la permanenza del Regno Unito in Europa. Prima di lasciare Brussels ha, infatti, ribadito che “la Gran Bretagna è nell’Unione Europea perché la sua presenza è utile per il lavoro britannico, per gli investimenti britannici e per gli scambi britannici. Siamo commercianti e abbiamo bisogno di mercati aperti”.

Affermazioni che lasciano intravvedere almeno qualche timido spiraglio di speranza. La frattura si può ricomporre. Ma se allora il Regno Unito non è intenzionato ad abbandonare l’UE, perché Cameron ha posto il proprio veto sui nuovi accordi europei? Quando Cameron è partito alla volta di Brussels era consapevole del fatto che tutti i Paesi avrebbero votato a favore delle nuove risoluzioni. Sapeva, tuttavia, di non poter giocare la parte dello “yes man”. L’opinione pubblica e i suoi alleati avrebbero mal digerito un suo incondizionato appoggio al duo Merkel-Sarkozy.

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Se Londra avesse, infatti, accettato il pacchetto salva-Europa (unione fiscale, rafforzamento del fondo di salvataggio e prestiti dal FMI) Cameron avrebbe messo in discussione la propria leadership entro i confini domestici. Nel corso degli ultimi mesi diversi parlamentari conservatori ed euroscettici hanno a più riprese sollevato la necessità di ricorrere allo strumento referendario per votare sulla permanenza del Regno Unito nell’UE. L’eventuale trasferimento di poteri a Brussels darebbe un nuovo impeto al fronte referendario. Per scongiurare una tale eventualità, Cameron ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco.

Innanzi a una sconfitta che avrebbe compromesso la propria leadership, il primo ministro è ricorso alle maniere forti e ostentare la propria (apparente?) opposizione al piano salva-Europa sebbene fosse consapevole del fatto che le nuove misure sarebbero state approvate dall’UE sotto forma di accordo intergovernativo anche senza l’appoggio del Regno Unito. La guerra era già persa in partenza. Quello a cui mirava Cameron era vincere la battaglia sul fronte interno e quindi allontanare in là nel tempo lo spettro del referendum sull’appartenenza all’UE e quindi, in un certo senso, rassicurare i colleghi europei. Entrambi gli obiettivi sono stati abilmente raggiunti.

La prossima sfida di Cameron sarà di convincere la propria coalizione di governo e l’opinione pubblica che i tempi sono cambiati. Londra non è più a capo di un impero colonialista e non può più atteggiarsi come tale. L’accentramento di poteri a Brussels, il trasferimento della EBA (l’autorità bancaria europea) da 25 Old Broad Street a Parigi e la tassazione sulle transazioni finanziarie sono nient’altro che la logica conseguenza di una sempre maggiore integrazione europea. Londra non può quindi permettersi di alzare le barricate perché ciò rischierebbe di isolare Londra dal resto del Vecchio Continente. Seguire una politica d’isolamento potrebbe mettere a freno l’economia di un Paese già alle prese con la crisi finanziaria e un debito pubblico in costante ascesa.

Fonti immagini: http://blogs.telegraph.co.uk

timesunion.com

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