Bambini Proibiti un libro di Marina Frigerio Martina

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Nel 1924 la Società delle Nazioni Unite redige la Dichiarazione dei diritti del fanciullo in cui sono sanciti i diritti di cui ogni bambino, senza alcuna distinzione o discriminazione, deve godere. Il documento fu stilato in Svizzera , a Ginevra. Proprio in Svizzera, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra fino agli anni ’80, esisteva una categoria di bambini sistematicamente esclusa da questi diritti.

E non solo. Per le autorità, semplicemente questi bambini non esistevano, o non avrebbero dovuto esistere. Erano i figli degli stagionali, dei lavoratori stranieri che, avendo un permesso di soggiorno limitato alla stagione lavorativa (nove mesi), non avevano diritto al ricongiungimento familiare. I genitori li portavano in Svizzera, clandestinamente oppure con un permesso turistico di tre mesi, ma spesso questi mesi si prolungavano fino a diventare lunghi anni, infanzie e adolescenze passate in poveri appartamenti senza fiatare per interi giorni, in silenzio, senza giochi e senza i compagni, ma con l’angoscia di una fanciullezza strappata via. Nel suo libro Bambini proibiti, Marina Frigerio Martina ne racconta le storie attraverso i racconti dirette di chi le ha vissute.

Le testimonianze raccolte fanno riferimento a situazioni tra loro diverse, ma tutte segnate dal trauma di un’infanzia resa difficile dalla separazione, dalla solitudine, dalla clandestinità. Con il passare del tempo, la percentuale di stagionali tra i lavoratori immigrati è diminuita e le restrizioni per l’ottenimento di un permesso si sono allentate. D’altra parte, all’applicazione delle norme è sempre stata sottoposta ad una certa arbitrarietà: alcuni cantoni erano meno rigidi di altri, c’erano funzionari più severi e altri più comprensivi, un vicino poteva determinare la disgrazia di una famiglia con una denuncia, oppure offrire sostegno e collaborazione preziosi.

Non di rado il destino di una famiglia e dei suoi membri dipendeva in larga parte dal caso e dalla fortuna, cosicché le esperienze di vita susseguitesi nel corso dei decenni risultano assai diversificate; a storie di dolore e lontananza si affiancano esempi di integrazione riuscita e di affermazione esistenziale e professionale negli ambiti più vari.

In genere coloro che offrono la propria testimonianza mostrano di aver superato il trauma o, quanto meno, di essere riusciti a metterlo da parte per dar spazio a nuove vite, fatte di lavoro, figli, nipoti…insomma, vite normali. Eppure, in un modo o nell’altro, nel profondo di sé, continuano a portare il segno di lunghi anni trascorsi nel desiderio e nella speranza di raggiungere un giorno quelle vite normali che a loro, figli di stagionali, erano negate.

Ancora in anni recenti affrontare questi discorsi in certi ambienti poteva essere difficile per motivi di ordine diverso: la tendenza, da parte delle autorità, a minimizzare la questione (talvolta persino il negazionismo), il dolore ancora troppo forte di esperienze vissute in prima persona, il timore di mettere in pericolo i casi residuali di clandestinità tuttavia ancora presenti, ma, soprattutto, una diffusa volontà di rimozione. Tutto questo ha come effetto una coscienza collettiva ancora poco informata.

Il grave rischio che può seguirne è quello di ricadere in errori del passato, sebbene in diverse circostanze storiche. Anche perché il principio secondo cui la politica migratoria elvetica va adeguata ai bisogni dell’economia, cui era ispirato lo “statuto dello stagionale”, è tuttora presente nella legge.

Il libro della Frigerio dovrebbe bastare, da solo, a far riflettere sulle conseguenze di un assetto giuridico che anteponga i bisogni del sistema economico a quelli dell’uomo e alla sua dignità. Le storie raccontate sono storie difficili, esistenze di famiglie unite nella durezza di una vita in terra straniera, o sofferenti per la lontananza e la separazione.

In ogni caso, sono storie intessute della più autentica umanità che, in considerazione dei continui mutamenti sociologici, oggi più che mai hanno molto da insegnare.

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