Di nuovo, al suo terzo appuntamento, la rassegna Cinema Italia UK coglie nel segno: domenica nove agosto è toccato ad Agostino Ferrente e Giovanni Piperno, registi di Le cose belle, un documentario assolutamente degno di attenzione, per il quale sono stati necessari circa quindici anni di riprese: si tratta di un riuscitissimo esperimento, volto a raccontare la travagliata storia di quattro giovani napoletani, della loro giovanissima età, carica di attesa per il futuro, animata da una vivida speranza, e dei quindici anni dopo, dopo che si è fatta strada, nei loro giorni, la cruda disillusione.
Le cose belle è l’intelligente fotografia di un piccolo cosmo dominato da leggi brutali, caustico documento di una realtà complessa, di un contesto che nega, senza pietà, opportunità.
La regista e produttrice italiana Luisa Pretolani ha chiesto ad Agostino Ferrente qualcosa sul suo film.
[ in foto il regista regista Agostino Ferrente e la direttrice di cinema italia Uk Clara Caleo Green]
Raccontaci qualcosa sulla storia di questo documentario.
Nel 1999 io e il coregista Piperno avevamo realizzato un documentario per Rai Tre Intervista a mia madre. Faceva parte di una serie che ci avevano chiesto di realizzare sull’infanzia negata: molti registi andarono nei Paesi del Terzo Mondo, noi scegliemmo Napoli.
Siamo partiti ad agosto: non sapevamo nulla, conoscevamo solo la data della messa in onda, che era ottobre. Abbiamo, dunque, dovuto trovare, in quei pochi mesi, i protagonisti della storia, e poi girare e montare. Siamo arrivati a Napoli che era estate, ricordo che c’era l’eclissi solare, e abbiamo cercato questi ragazzini dove sapevamo di trovarli… non a scuola, naturalmente. La scuola era chiusa, ma se pure fossimo andati tre mesi prima, non li avremmo trovati a scuola.
Abbiamo incontrato un centinaio di ragazzini e abbiamo fatto delle interviste. Chiedevamo a tutti cosa pensavano del loro futuro. Il titolo originale era, infatti: Cosa sognano i ragazzi di Napoli. Tutti i maschi rispondevano che volevano fare i calciatori, tutte le ragazze che si immaginavano top model.
Gli unici quattro che, pur avendo questo sogno, già sapevano che non sarebbero diventati quello che sognavano, sono diventati i nostri protagonisti. Questi ragazzini mostravano uno strano disincanto alla loro età.
Il documentario Intervista a mia madre è andato in onda ed ha fatto anche un record di share, su Rai Tre in prima serata. Noi registi, nonostante tutto si fosse concluso, abbiamo, poi, cominciato a sentire la necessità di tornare da loro.
Così, dopo dieci anni, siamo tornati da loro, grazie alla nostra produttrice, che ha trovato un piccolo finanziamento locale. Siamo tornati per capire cosa fosse accaduto: era il 2009, ed il lavoro è stato svolto nell’arco di quasi quattro anni, ma perché non avevamo un produttore e, dunque, continuavamo a girare nell’attesa di un produttore.
Alcuni interventi dal pubblico nel corso del Q&A.
Qual è stata la reazione dei ragazzi quando siete tornati? Vi hanno chiesto di essere pagati?
Quando siamo andati nel 1999 i ragazzini si proponevano tutti per essere intervistati: l’idea di andare in televisione, per loro, era fondamentale. Quando il documentario è andato in onda, nel quartiere hanno avuto i loro quarto d’ora di celebrità. Col trascorrere degli anni, la gente si aspettava che diventassero famosi da un giorno all’altro, ma, chiaramente, non è accaduto niente di tutto quessto, e allora sono stati anche presi in giro. Quando siamo tornati dieci anni dopo, loro erano ben consapevoli che se avessero lavorato con noi, non sarebbero diventati famosi e non avrebbero guadagnato soldi. All’inizio, infatti, non erano molto contenti, poi hanno capito il progetto e noi eravamo contenti perché loro collaboravano con noi con una certa consapevolezza. Sapevamo di non creare aspettative, di non illuderli. Ai ragazzi davamo soo un rimborso, perché, trascorrendo tempo con noi, non potevano andare a lavorare.
Sei soddisfatto di quest’opera? Come la riconosci nel tuo percorso artistico?
Io credo di essere un eterno dilettante, e non riesco a distinguere il lavoro dalla vita. Per me i miei personaggi sono come dei parenti.
E rispetto alla scrittura? Tu sei anche uno sceneggiaatore.
Facendo documentari, la scrittura la realizzo sul set, insieme ai personaggi: non gli scrivo le battute, ma cerco come un ostetrico di tirare fuori delle cose che hanno, ma che senza provocazione non vengono fuori. Questo è il senso della drammaturgia. Mi piace non tanto raccontare quello che succede, ma far succedere le cose e poi raccontarle.
Hai dei progetti in cantiere?
Ho vari progetti, ma questo non è segno di prolificità. In Italia c’è una grossa sproporzione tra le energie investite ed i risultati. Molta energia la si investe non per il proprio lavoro artistico, ma per tutto quello che c’è dietro. E questo è un grande problema. Il nostro documentario non voleva distribuirlo nessuno, prima che l’Istituto Luce decidesse di realizzarne un dvd. Senza pubblicità, il film ha battutto il record di resistenza in sala ed è stato proiettato per circa sei mesi.
Io forse scriverò il primo film di finzione, e sto pensando ad un racconto nel carcere femminile di Venezia: lascerei la camera alle detenute. Sarebbe un documentario delegato, di cui farei la supervisione.
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