Abbiamo incontrato Francesca Archibugi, regista e sceneggiatrice italiana, in occasione della rassegna cinematografica italiana Cinema Italia UK.
Q: Ciao Francesca, fra i temi ricorrenti dei tuoi film ho notato una particolare attenzione ai rapporti familiari. In che modo la tua famiglia ha influenzato la tua carriera?
F: Credo che non solo per me, ma la famiglia in generale è formativa per tutti, nel bene e nel male, ma non solo perché, diciamo, in senso cattolico la famiglia è la base delle relazioni, ma perché comunque i componenti di una famiglia sono esseri umani, sono costretti a convivere e quindi a conoscersi profondamente. Per certi aspetti non sono più o meno importanti degli altri esseri umani che incontri nella vita, ma sono quelli con cui passi più tempo e con i quali espedisci di più delle relazioni personali, per questo mi interessa.
Q: Anche perché la tua famiglia è stata molto particolare.
F: Diciamo che io di famiglie ne ho avute parecchie, nel senso che mio padre si è sposato più volte, siamo molti fratelli e fratellastri, diciamo che non ho avuto una famiglia tradizionale.
Q: Che cosa cerchi di trasmettere con questi conflitti generazionali?
F: Io racconto delle storie, un lavoro vecchio come il cucco per l’umanità.
Q: Ma sempre attuale.
F: L’essere umano ha sempre avuto bisogno di narrativa, dai tempi delle grotte, intorno al fuoco, c’era chi ascoltava e chi raccontava. È una necessità dell’umanità.
Q: In particolare degli artisti. Come sono cambiati i contrasti dai tempi dei tuoi primi film, ambientati in epoca diversa?
F: Io ho un punto di vista paradossale sulle relazioni. Io credo che nei sentimenti profondi non cambi nulla nel corso dei millenni, si ha solo l’idea che certe sensazioni cambino. Pure con l’avvento di internet, ad esempio la gelosia è la stessa di cui parlava Saffo quattro secoli avanti Cristo: cioè, ci sono delle emozioni, dei sentimenti e delle relazioni che sono inscalfibili nella natura umana. Io cerco di arrivare a quello, non mi interessa niente di quella schiuma che apparentemente cambia delle relazioni, io cerco di raccontare ciò che resta di immutato.
Q: L’essenza. Un’altra attenzione che ho notato è la visione politica dei personaggi, che di solito è molto soggettiva. Per esempio, il film “Verso Sera” è ambientato negli Anni di Piombo e i personaggi hanno una visione politica molto diversa da, per esempio, Paolo de “Il nome del figlio”. Come è cambiata la visione politica delle persone dagli Anni di Piombo ad oggi?
F: Io non racconto le persone, perché questo probabilmente lo fa un sociologo. Essendo una narratrice, io racconto una persona e quindi non è la stessa persona, ma un punto di vista politico del tutto individuale. Paolo non ha niente a che vedere con il professor Bruschi, probabilmente è suo padre che gli somigliava. Quindi per certi aspetti, i miei personaggi hanno un legame l’uno con l’altro e ognuno nei confronti della politica ha un suo punto di vista.
Q: Ho notato comunque come attraverso queste visioni lei ha trasmesso il cambiamento, ma adesso passiamo a “Il nome del figlio”: il film è un adattamento del francese “La prènom” di Alexandre De La Patelliere e Matthieu Delaporte in chiave romana. Personalmente ho notato una somiglianza con il “Carnage” di Polanski per questa ambientazione unica, il numero limitato di personaggi. Come si è trovata a gestire questa situazione?
F: Per chi fa un cinema di personaggi e non di situazioni, l’idea di sbatterli tutti dentro una stanza e farli scannare l’uno con l’altro alla Carnage, è una cosa molto interessante, è una specie di appuntamento che registi della mia natura agognano quasi. Quando ho visto a teatro “La prènom” ho sentito che potevo farla molto mia, anche perché la commedia è straordinariamente ben congegnata dal punto di vista drammaturgico, con colpi di scena, rovesciamenti di personaggi. Io e Francesco Piccolo abbiamo scritto assieme la struttura narrativa del nostro adattamento e l’abbiamo tenuta fedele, perché è davvero un lavoro eccezionale. Abbiamo sistemato ogni piccolo dettaglio ed è stato un lavoro molto accurato sui personaggi.
Q: A proposito dei personaggi, che dire sui bambini, che sono uno sguardo esterno, ma comunque sempre presente sulla vicenda?
F: Non ci sono solo i bambini figli di Betta e Sandro, che pure sono uno sguardo presente attraverso l’elicottero su questi adulti che non sempre sono come i figli vorrebbero, calmi, equilibrati.. Questi bambini che sono costretti a vivere il turbine di questi genitori che invecchiando, in qualche modo non maturano, anche perché l’idea della maturazione è un sogno, ma ci sono anche loro stessi bambini ed anche questo è importante perché noi siamo quello che siamo, invecchiando, siamo sempre noi.
Q: Infatti tante volte le aspettative vengono deluse. Ma passando al personaggio di Simona, un po’ burina e solo apparentemente superficiale, alla fine è quello più sincero: questo potrebbe essere un eco pasoliniano della naturalezza delle borgate?
F: Di nuovo, io non faccio sociologia, non porto mai una borgata in un personaggio. Io e Francesco Piccolo abbiamo inventato Simona, che come personaggio nella commedia non esiste, abbiamo avuto la necessità di raccontare e di dare carne e sangue a ciò di cui stavano parlando. Il disprezzo di Sandro nei confronti di Simona, che considera il punto di vista intellettuale una cosa fondamentale, alla fine viene rovesciato, e io ho mostrato veramente il suo interno con il parto cesareo. Quello è un vero parto ed io sono entrata in sala con Micaela Ramazzotti, ho girato il suo vero parto ed è stata una delle cose più belle che mi siano capitate nella vita professionale. Con una mano le tenevo la mano e con l’altra riprendevo.
Q: Quindi abbiamo proprio l’invasione della realtà all’interno del film!
F: All’interno di questo film ho proprio voluto ricordare che ciò che avviene all’interno di una camera non è meno forte di ciò che può avvenire fuori, anche da un punto di vista cinematografico.
Q: Lei ha trasmesso l’importanza di Simona sin da subito, presentandocela all’inizio del film, anche se come voce esterna e alla fine è il personaggio chiave dell’intera vicenda. Però c’è anche un altro personaggio, Betta, che io ho trovato forse il meno compreso da tutti.
F: Si, Betta è una vita che viene schiacciata, prima da una madre con una personalità esuberante, poi a piccoli tocchi, è molto sfiduciata in se stessa e tutto questo l’ha portata ad essere quello che è, a voler fare il collante fra tutti, senza essere riconosciuta abbastanza.
Q: Questo è un vero peccato perché, anche se sfiduciata, pure lei è sincera al suo modo. Anche se pure lei ha dei segreti, dei momenti di dubbio, però alla fine è molto buona, come il resto dei personaggi. Infine, vista la sua lunga carriera e i suoi successi, cosa consiglia ai nuovi registi?
F: Adesso è tutto diverso, io comunque consiglierei di buttarsi in televisione, perché è lì che stanno succedendo delle cose molto interessanti e dove c’è molto più lavoro. Ci sono delle serie bellissime, c’è molta più possibilità di sperimentazione, soprattutto in altri paesi oltre l’Italia, che ormai è massacrata dalla commedia: un genere che sappiamo fare benissimo, ma che purtroppo ha provocato un degenero insopportabile. Guardare alla televisione, quindi, ma anche cercare di fare un cinema libero e indipendente, perché il mercato in questo momento strangola, ma sopratutto imparare il mestiere tecnico, essere sempre update con le nuove tecnologie, che non significa essere meno autore. Il cinema è un mestiere che ha bisogno di molti soldi, ma anche di una forte mediazione tecnica.
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