Doccia fredda sul goveno Cameron – Tata da l’addio alle acciaierie inglesi ed e’ crisi

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LONDRA – Risale a pochi giorni fa’ la scottante notizia che ha trovato impreparato il governo britannico della volontà del gruppo indiano Tata Steel di disfarsi della fabbrica di Port Talbot, Galles meridionale, e di altre sedi minori, che rappresentano da qualche tempo una falla nel sistema aziendale, causando perdite dell’ordine di 1,5 milioni di euro al giorno.

Il veloce rientro del premier britannico Cameron e del ministro per l’industria Javid dalle loro vacanze ci da’ un’idea del livello di impreparazione nel quale versavano quando la notizia della vendita, e della conseguente perdita di 40.000 posti di lavoro, è arrivata.

Non si sono fatte attendere le critiche e le proposte da parte del leader laburista Jeremy Corbyn che ha accusato il governo di non aver prestato la dovuta attenzione al gruppo indiano nel corso del tempo e ha fatto partire una petizione, già firmata da oltre 117.000 persone, per richiedere un raduno del Parlamento. La sua proposta è quella di un ritorno alla nazionalizzazione delle acciaierie, e il ripristino del marchio British Steel.

La risposta arrivata da Downing Street è negativa; il premier e Javid hanno ribadito il ruolo centrale ricoperto dalla sede di Port Talbot e hanno proclamato la loro vicinanza ai lavoratori, rifiutando la proposta della nazionalizzazione per garantire un futuro più lungo e stabile alla sede gallese.

Si è unito al coro degli accusatori anche Stephen Kinnock, deputato laburista eletto nella circoscrizione gallese sede di Port Talbot, che ha condannato la negligenza del governo e criticato l’assenza di Cameron e di Javid al consiglio di amministrazione del gruppo a Mumbai lo scorso martedì, una sede nella quale ci sarebbe potuta essere una possibilità di negoziazione con la Tata, che il governo non ha colto. Il problema principale, come affermato anche dal ministro degli Esteri Philip Hammond, è l’eccessiva quantità di acciaio presente a livello mondiale, a cui si aggiunge il prezzo di quello britannico, molto più alto rispetto a quello cinese.

Anche lo stesso governo cinese si trova ora invischiato nella questione: il continuo abbassamento del prezzo per l’esportazione dell’acciaio è dovuto alla necessità degli stessi produttori asiatici di liberarsi velocemente dell’eccessiva quantità di materia prima e l’aumento dei prezzi per l’importazione dall’Europa è anch’esso uno strumento per preservare la loro economia interna.

Il ruolo dell’Inghilterra e dell’Europa nella produzione e nel commercio dell’acciaio a livello mondiale perde importanza giorno per giorno: la domanda di questa materia prima è attualmente molto bassa e non ci sono molte aspettative sul futuro dell’industria nei prossimi anni. Al contrario, la richiesta indiana cresce costantemente, sebbene lentamente, e pertanto il colosso asiatico non può permettersi di sopportare il peso economico che la sede di Port Talbot costituisce da circa 18 mesi.

Sin dall’acquisizione della Corus nel 2007, le opinioni erano state contrastanti: la decisione di acquistare un business quattro volte più grande della Tata Steel stessa era stata presa con la convinzione che ciò avrebbe garantito all’India di entrare a far parte della scena mondiale e rappresentava, in qualche maniera, un’inversione di marcia nel processo di colonizzazione e conquista.

Il conglomerato con sede a Mumbai ha investito più di un miliardo di sterline proprio nella sede di Port Talbot, da sempre fulcro della produzione di acciaio in Regno Unito, nel tentativo di risollevarla, ma senza successo. Ciò che è accaduto in seguito ha screditato queste convinzioni, in quanto questo investimento si è rivelato pressoché fallimentare, il che ha portato alla decisione di Tata di liberarsi delle sue sedi in UK, che non costituiscono più, né sembrano poter costituire nel futuro prossimo, una fonte di guadagno.

È quasi surreale assistere alla decadenza del ruolo centrale dell’Inghilterra all’interno del settore secondario metallurgico, del quale essa stessa è stata la culla nel corso di XVIII e XIX secolo con la prima e seconda rivoluzione industriale. Subito dopo la Grande Depressione iniziò un processo di sviluppo economico e crescita produttiva che si protrasse fino agli albori della Prima Guerra Mondiale: in particolare nel 1870, si assistette all’apogeo dell’economia britannica, archetipo del sistema capitalista-industrializzato. Il rinnovamento tecnlogico investì tutti i settori produttivi, ma i cambiamenti più interessanti furono quelli riguardanti i settori chimico, elettromeccanico e quello, appunto, della metallurgia dell’acciaio.

I pregi dell’acciaio erano conosciuti da tempo ma ciò che ne rendeva impossibile la produzione erano i costi; con l’abbassamento di questi ultimi, grazie alla scoperta di nuove tecniche di fabbricazione, quest’industria decollò.

La produzione crebbe esponenzialmente in quanto l’acciaio sostituì quasi totalmente il ferro e ciò portò con se la necessità di espandere i mercati, cosa che avvenne all’interno dei confini dell’Impero britannico, del quale faceva parte anche la penisola indiana. I tempi d’oro per l’acciaio inglese sono ormai nient’altro che un bel ricordo: nel 1875 la Gran Bretagna era responsabile della produzione del 40% dell’acciaio mondiale, al giorno d’oggi deve accontentarsi dello 0,7%.

 

 

 

 

 

 

 

L’industria metallurgica inglese ha subito un collasso molto più veloce e catastrofico rispetto a quello dei suoi vicini: è stata superata nel corso degli ultimi anni da Germania, Italia, Francia e Spagna. Anche durante la seconda rivoluzione industriale, dopo i successi iniziali, a lungo termine furono gli Stati Uniti ad avere la meglio sul Regno Unito in questo campo; dopo la Seconda Guerra Mondiale si assistette ad una serie di nazionalizzazioni e privatizzazioni da parte dei governi inglesi in carica: nel 1967 venne rinazionalizzata e nacque la British Steel Corporation, privatizzata nuovamente dal governo della Thatcher nel 1988.

Risale al 1999 l’unione della British Steel con la Koninklijke Hoogovens, un’azienda olandese, che portò alla formazione della Corus, acquistata poi nel 2007 proprio dalla Tata Steel. Quest’ultima batosta arrivata dagli ex-colonizzati nei confronti degli ex-colonizzatori si aggiunge ad una serie di disastrosi eventi che hanno segnato la storia dell’industria metallurgica inglese e della produzione di acciaio nel corso dei secoli.

Il colosso asiatico appare irremovibile e ha già iniziato dei colloqui con altri possibili alleati, tra i quali il tedesco Thyssen Krupp. C’è da aggiungere che questa notizia non sarebbe potuta arrivare in un momento peggiore: è infatti un periodo molto delicato nella campagna per il Brexit, il referendum con il quale gli inglesi voteranno per l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea il prossimo 23 giugno.

Potrebbe essere una mossa a favore dei cosiddetti “Leave”, coloro che vorrebbero uscire dall’UE, presentandola come un’occasione per liberarsi dal peso delle industrie fallimentari europee, ma è molto più probabile che sia un colpo basso per i conservatori e che favorisca invece i “Remain”, in quanto apparirebbe ancora più improbabile la sopravvivenza dell’Inghilterra e della sua economia fuori dalla protezione dell’Unione Europea.

Il ruolo dell’UE in questo momento sarebbe vitale: dipenderebbe da essa, infatti, l’introduzione di tariffe più alte per l’importazione della materia prima in UK, cosa già avvenuta negli Stati Uniti. Il motivo per cui ancora non è stato fatto alcun passo in questo senso è l’incapacità di giungere ad una conclusione sul da farsi ed è questo ciò che i conservatori criticano, ovvero la lentezza della burocrazia europea nel risolvere problemi urgenti. La risposta dei laburisti lascia loro poco spazio, accusando Downing Street di nascondere le proprie negligenze sotto la responsabilità di mamma Europa.

L’esito di quella che è, ad oggi, una delle crisi peggiori che l’industria metallurgica in Gran Bretagna si trova ad affrontare, sarà quindi determinante anche nella definizione del percorso politico inglese.