Royal College of Surgeons, 25 luglio, Londra.
Il dibattito all’evento “Why War?”, organizzato da Emergency UK, è aperto dal londinese Giles Duley, un fotografo di guerra a cui non piace essere definito tale; infatti, dice, lui è un anti-war photographer, non un war-photographer. Particolarmente toccante la storia del suo percorso di vita che l’ha portato a voler documentare solo storie di guerra, o meglio, le storie di chi la guerra la subisce, cioè i civili. Dopo aver subìto un grave incidente quando era molto giovane e sportivo, ricevette in regalo dal suo padrino sul letto d’ospedale una macchina fotografica Olympus ed un libro del fotografo di guerra Don McCullin, così si cominciò ad appassionare di fotografia, intraprendendo questa carriera nel campo della moda e della musica. “Bella vita”, invidiata da tutti i suoi amici, racconta, ma a fine giornata quello che sentiva era solo un gran vuoto e la sensazione di non star facendo quello che veramente gli interessava. Recuperò dunque quel libro di fotografie di guerra rimasto sullo scaffale della sua adolescenza e decise che quella era la sua vera vocazione. Inizia così il suo lavoro come fotografo per grandi associazioni e charities, come Medici senza Frontiere; purtroppo, in Afghanistan, nel 2011, camminando accidentalmente su una mina anti-uomo, ha perso un braccio ed entrambe le gambe, ma ciò non ha spento in lui la passione per il suo lavoro ed è quindi tornato recentemente nelle zone confinanti la Siria per documentare la vita nei campi profughi.
“Quando vado in zone di conflitto a fare foto, passo del tempo con i miei soggetti e la mia intenzione non è quella di mostrarli come vittime, ma come persone.” questa frase è ciò che sintetizza il suo approccio al reportage di guerra; ammette di non essere interessato a fotografare i momenti d’azione tra una guerriglia e l’altra, ma appunto le storie di chi, nonostante perdite affettive, materiali e facoltà fisiche enormi, cerca di andare avanti e trovare la bellezza della vita nell’amore per chi è rimasto e per la propria terra.
A questo punto sale sul palco Gino Strada, medico e co-fondatore di Emergency che dal 1994 opera incessantemente in diverse zone dell’Africa (e in Italia), non solo in aree di conflitto ma anche dove, in generale, l’assistenza medica di qualità e accessibile è ancora un sogno per la maggioranza della popolazione. Potremmo citare alcuni dati, ad esempio i sette milioni (e oltre) di pazienti curati finora da Emergency gratuitamente e i nomi delle località dove sono stati costruiti centri ospedalieri con reparti specializzati, ma sono tutte informazioni che potete trovare sul sito di emergency.it; ciò di cui ha parlato Gino Strada, 68 anni, senza interpreti e con un inglese sicuro, intercalato a volte da espressioni ironiche molto italiane, è la filosofia con cui ha fondato l’associazione umanitaria e con cui continua ad operare all’interno di essa. Si definisce una persona un po’ fredda, che evita di parlare anche con i piccoli pazienti prima degli interventi, per paura di rimanere troppo coinvolto emotivamente, ma anche perché, dice, non saprebbe che cosa raccontare a dei ragazzini che stanno per subire delicati interventi a causa delle guerre, evitabili, decise dagli adulti in altre parti del mondo “civilizzato”. Il divario che c’è nel mondo tra chi ha e chi non ha, tra chi ha diritto ad avere e chi non ce l’ha crea divisione e discriminazione ed è assurdo che non si provi ad arginarlo, anche nell’ambito della sanità, dove ancora troppe persone sono impossibilitate a curarsi; nemmeno in Italia, secondo Strada, che pur ricopre uno dei primi posti in classifica per qualità di sistema sanitario pubblico, il principio di investire nella sanità di qualità e a portata di tutti, sembra rispettare le aspettative. E poi, come se non bastasse, c’è l’ombra della guerra, sempre in agguato, oggi più che mai, ma che per milioni di persone già da molto tempo è la normalità nel proprio Paese. “Non sono un pacifista, sono semplicemente contro la guerra”; sprezzante, Strada si scaglia contro i politici, di tutti i partiti e di tutti i Paesi indistintamente, che ancora non sembrano aver capito l’inutilità della guerra, il danno che essa provoca non solo dove va a colpire ma anche fra i propri militanti, perché la guerra è una cosa inumana, dice il chirurgo. Ironizza amaramente sul fatto che l’abolizione della guerra non sia ancora stata presa in considerazione dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU e tuttavia lui non è un politico, non vuole esserlo, dice di voler rimanere quello che è, un semplice medico che opera secondo un’etica che tutti dovrebbero far propria, cioè l’assistenza medica come missione, come condivisione e solidarietà per chi ne ha bisogno.
La terza e ultima parte della serata, infine, è dedicata alle domande del pubblico, fra cui sono presenti molti Italiani che conoscono già la realtà di Emergency e Gino Strada, ma anche molti giovani nativi britannici o di altre nazionalità. Il filo conduttore delle domande sembra essere uno, e cioè come possiamo noi, così piccoli e impotenti, contribuire al cambiamento? Far cambiare idea alle persone “bellicose” che incontriamo o che conosciamo già? Azioni concrete per fermare questo orrore? Come si fa? Una risposta, quella che sarebbe veramente da un milione di dollari, in realtà non viene data perché non c’è, almeno questa è stata la mia impressione dalle risposte vaghe di Duley e Strada. Un suggerimento però è quello di cercare, nel nostro quotidiano e nella nostra vita, un modo per esprimere il nostro attivismo contro la guerra; nel caso di Duley, ad esempio, lo storytelling della fotografia; certo non cambierà il mondo, ma è un’operazione attraverso la quale le storie di queste persone vengono conosciute nel mondo ed è allo stesso tempo un modo per ispirare altre persone a fare a loro volta qualcosa contro la guerra. Una cosa è certa, per quanto poco le nostre azioni possano avere riscontro in larga scala, nel mondo, non bisogna mai perdere l’ottimismo e la fiducia che qualcosa possa cambiare, partendo da ciò che ci circonda.
di Alessandra Gonnella.
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