“Le Fake News non sono il vero nemico della democrazia nell’epoca del web” Intervista a Jamie Bartlett

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Londra ( Riccardo Liberatore) Jamie Bartlett, giornalista, scrittore e direttore del Centre for the Analysis of Social Media, il ‘ministero’ tecnologico dell’influente think tank londinese Demos, questi movimenti esprimono le istanze radicali che spesso e volentieri – come nel caso dei 5Stelle – finisco nel mainstream culturale e politico.

Una delle premesse fondamentali del suo libro Radicals è che i movimenti ‘radicali’ come i 5stelle in Italia vadano ascoltati e studiati perché, come la storia a volte dimostra, finiscono per entrare dai margini nel ‘mainstream’. Nel caso dell’Italia le ultime elezioni sembrano averle dato ragione. Se lo aspettava? 

Scrissi del M5stelle per la prima volta nel 2012, quando in Inghilterra in pochi li conoscevano e poco dopo il M5Stelle ottenne il suo primo successo elettorale [elezioni del 2013]. Credo che molte persone si aspettassero che sarebbero spariti dopo poco perché il contatto con il potere e la necessità di scendere a compromessi in politica non giova ai partiti radicali, come è successo con lo Ukip in Inghilterra. Quindi anche se mi aspettavo che avrebbero avuto successo, non credevo che sarebbero rimasti al centro della scena politica così a lungo. Non so se questo sia dovuto principalmente al contesto italiano e alla grande frustrazione dell’elettorato nei confronti della politica o se invece sia un segno dei tempi. 
 
Crede che i 5stelle rappresentino il futuro della politica europea o occidentale e non solo italiana?  

Parzialmente, non tanto grazie alla loro offerta politica, il loro programma, quanto al loro modo di fare politica. Per esempio il fatto di dipendere da una leadership carismatica e di usare un linguaggio iperbolico, emotivo, a tratti aggressivo, che funziona meglio nei media di oggi perché riesce a fare breccia attraverso l’enorme quantità di informazioni dalle quali siamo quotidianamente inondati. Dopotutto la politica è anche marketing. Ma il secondo motivo è più profondo a mio avviso ed è dovuto alla forma di partecipazione politica espressa dal movimento, più affine alla nostra vita da ‘consumatori’ per la sua immediatezza ed ‘apertura’. Mi sembra che il M5Stelle sia frutto anche di una riflessione sulla nostra natura di ‘consumatori digitali’, abituati ad avere servizi, informazioni e potere decisionale a portata di un clic. Mi sembra che il loro modo di fare politica sia condiviso da molti fuori dall’Italia. Lo stesso Donald Trump è stato influenzato da correnti simili a quelle che hanno portato il M5stelle al potere. Si potrebbe dire la stessa cosa di Jeremy Corbyn. 

Nel suo libro parla del ‘paradosso dell’attivismo’ citando Jeremy Corbyn e Momentum [rete attivista vicina al leader laburista] per cui gli attivisti zelanti vengono accusati di essere fanatici mentre i più miti spesso sono tacciati di essere ipocriti. Come hanno fatto Corbyn e Momentum ad uscire da questo paradosso?  
 
Nella prima edizione del mio libro [uscito nel 2016] scrissi che non ce l’avrebbero fatta, che la gigantesca rete di attivisti che si era creata intorno a Corbyn non si sarebbe mai tradotta in una forza elettorale. Poi con il risultato ottenuto dal labour nelle ultime elezioni [ndr. nel 2017, in cui il labour raccolse il  40% dei consensi, 2% in meno rispetto al partito conservatore] mi sono ricreduto e dovetti cambiare ciò che avevo scritto. Onestamente ancora faccio fatica a spiegarlo. Credo che la sua ascesa sia dovuta in parte alla terribile campagna elettorale di Theresa May, che si era mostrata poco autentica e poco disinvolta di fronte all’elettorato che alla vigilia delle elezioni la preferiva con ampi margini rispetto ai suoi rivali. Un sintomo dei tempi turbulenti in cui viviamo in cui le sorti di un’elezione o di un partito politico possono cambiare repentinamente, anche per la natura emotiva e polarizzante del paesaggio mediatico. Nonostante questo credo che il ‘paradosso degli attivisti’ sia un modello utile per capire perché alcuni movimenti radicali non riescono mai ad entrare pienamente nel mainstream. 

Forse l’appeal di Corbyn è dovuto anche alla sua apparente ‘normalità’, come il fatto di  dedicarsi nel suo tempo libero al giardinaggio o alla preparazione di marmellate?  

Quando i media cominciarono ad occuparsi di Corbyn per la prima volta durante le elezioni del 2016 credo che la sua immagine mutò: non veniva più rappresentato come un’attivista ma più come un ‘Nimbyist’ [da ‘Not In My Back Yard’, ovvero persone per cui il proprio impegno politico è circoscritto a questioni che le interessano direttamente]. Spesso i politici di successo sono persone per cui l’elettorato prova un’affinità culturale o umana, anche in modo inconscio. 

Nonostante le sue qualità di ‘uomo comune’ Corbyn è considerato un politico radicale. Lo stesso viene detto dei conservatori o ‘populisti’ pro ‘hard-Brexit’ come Nigel Farage, Boris Johnson e Jacob Rees-Mogg. Secondo lei la Gran Bretagna sta attraversando un periodo di ‘radicalismo politico’?  

Sicuramente. Per circa vent’anni, dalla metà degli anni ’90 fino a circa il 2015, la differenza tra sinistra e destra era piuttosto minima. E i politici rispettavano di più le regole del gioco, la politica non era cosi intrisa di odio e di rabbia. Oggi la sinistra crede che la destra sia semi-fascista, mentre la destra accusa la sinistra di essere naif e autoritaria. In parte, come spiego nel mio nuovo libro, credo che la colpa sia dell’internet, che tende ad esacerbare questi antagonismi. La politica si è polarizzata ed estremizzata, ma credo che dal punto di vista ideologico molti di questi movimenti siano nostalgici più che radicali – un ritorno ad un epoca in cui la Gran Bretagna era più importante a livello globale ma in cui c’era anche un più forte senso di comunità e di appartenenza. Forse gli ultimi vent’anni verranno ricordati come un periodo di inusuale stabilità. Non credo che sia un caso che la fine di questo periodo sia coinciso con la nascita e la diffusione di uno nuovo sistema d’informazione… 

Un ritorno al passato perché il futuro fa paura?  

Si, credo che ci stiamo avviando verso un’epoca piuttosto buia, che porterà le persone a sposare politiche basate sulla nostalgia, un sentimento che spesso è al cuore del nazionalismo. Il futuro ci appare turbolento ed incerto perché stiamo andando incontro a vari cambiamenti epocali, come il cambiamento climatico, che porterà con sè un’onda gigantesca di rifugiati, e la continua innovazione tecnologica. Cambiamenti radicali che richiedono soluzioni radicali – davvero crediamo che le idee della sinistra e della destra di oggi possano esprimere soluzioni a problemi che si presenteranno tra qualche decennio, come la concentrazione di un enorme potere nelle mani di compagnie tecnologiche o le migrazioni di milioni di rifugiati? 

Perché secondo lei il web ha determinato una polarizzazione della politica di cui prima?  

Spesso quando due persone litigano o dibattono un argomento su internet avviene l’opposto di quello che più spesso succede nella vita reale: invece di avvicinarsi e trovare un punto di accordo, le differenze tra le parti vengono accentuate e cresce il sospetto che l’interlocutore sia mosso da un fine subdolo o disonesto. La triste verità della politica nell’epoca del web è che nonostante sia più rumorosa e generi molto interesse in realtà finisce per allontanare le persone le une dalle altre. Questo esito è rafforzato da una caratteristica intrinseca al web che porta inevitabilmente le persone ad organizzarsi in gruppi, spesso in contrapposizione tra di loro. L’inondazione dell’elettorato da moltissime notizie favorisce ragionamenti più emotivi – come strumento per ‘filtrare’ le tante informazioni in tempi brevi – e tende quindi ad accentuare l’identificazione con i gruppi di appartenenza. Il fatto che oggi sia possibile tramite il web trovare un’infinità di informazioni che confermano i nostri pregiudizi e conoscenze tende poi ulteriormente a rafforzare questo meccanismo, come del resto fanno automaticamente gli algoritmi che indirizzano i flussi mediatici. Il risultato è una politica sempre più ‘tribale’. 

Mi sembra di capire quindi che secondo lei le ‘fake news’ siano l’ultimo dei nostri problemi. Perché allora viene data così tanta importanza allo scandalo di Cambridge Analytica?  

Secondo me parlare di ‘fake news’ serve a distogliere l’attenzione da questi problemi strutturali molto più importanti. Non credo che siano davvero alla base della recente polarizzazione della politica che è dovuta non tanto a notizie ‘false’ ma al modo in cui vengono diffuse e consumate notizie vere. L’enfasi data alle ‘fake news’ è dovuta in parte al fatto che rappresentano un problema di più facile risoluzione. Riflette inoltre la rivalità tra giornali e giornalisti e le compagnie come facebook e google oltre che il giornalismo amatoriale. Molto di quello che è emerso nelle ultime settimane a proposito di Cambridge Analytica in realtà era già noto più di anno fa e Christopher Wylie [la ‘gola profonda’ di Cambridge Analytica] collabora con l’Information Commissioner da più di anno. Per quanto riguarda la politica britannica e il referendum sulla Brexit, credo che il ruolo di Cambridge Analytica e delle ‘fake news’ sia stato molto minore rispetto alla campagna elettorale negli Stati Uniti, sia per il numero inferiore di dati facebook usati per fini elettorali, sia perché in Gran Bretagna non era legata a meccanismi di finanziamento milionario.