Medio Oriente tra brindisi e bombe

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Londra (Valeria Piccioni) – Lunedì 14 maggio la sorridente Ivanka Trump, figlia del presidente americano, scopre in uno scintillio di flash la targa che inaugura la nuova ambasciata statunitense a Gerusalemme. A pochi chilometri dalla lussuosa cerimonia, a Gaza, una compagine di circa 60 partigiani palestinesi viene massacrata dall’ esercito israeliano. Nemmeno Leyla, la neonata di 8 mesi aggredita dai gas lacrimogeni, viene risparmiata.

Il giorno seguente due palestinesi vengono uccisi durante i nuovi scontri scoppiati tra le striscia di Gaza e lo Stato ebraico. 250 manifestanti palestinesi rimangono feriti tra Gaza e la Cisgiordania.

Era piuttosto prevedibile che la mossa del trasferimento dell’ambasciata americana, avvertita come una palese provocazione da parte dei palestinesi sfociasse in una ribellione e quindi in un conflitto armato.

Il “semi stato” di Gaza si estende per circa 360 km² per una popolazione di quasi 1.700.000 locali e risulta essere una delle realtà dalla densità abitativa più alta. “Semi stato” perché Gaza gode di una formale autonomia, ma dopo gli accordi di Oslo continua a subire il controllo di Israele per quanto riguarda gli spazi aerei, le acque territoriali, l’accesso marittimo, l’anagrafe della popolazione, l’ingresso degli stranieri, l’import e l’export dei beni, il regime fiscale. Anche i posti di blocco situati lungo tutto il confine sono israeliani.

Ed è in parte responsabilità di questo regime oppressivo israeliano che il malcontento di Gaza ha dato luogo a numerosi consensi nei confronti del Movimento Islamico di Resistenza e cioè Hamas.

D’altra parte Israele può permettersi un atteggiamento inflessibile grazie all’ appoggio statunitense, al trasferimento dell’ambasciata a Gerusalemme, al ritiro dell’accordo sul nucleare israeliano, al fatto che l’Egitto, impegnato con i jihadisti del Sinai, non dimostra di fatto alcuna volontà di introdursi nella scacchiera del grande gioco regionale a fianco di Hamas: negli ultimi giorni il governo israeliano ha bombardato postazioni siriane senza incontrare alcuna resistenza.

I portavoce israeliani giustificano gli ultimi atti sostenendo di aver agito per legittima difesa, puntando il dito contro Hamas, tentando in modo macbethiano di lavarsi le mani dal sangue di civili innocenti.

Mentre l’OLP proclama tre giorni di lutto per i funerali delle vittime di Gaza, il New York Times pubblica la notizia sotto il vago titolo “Dozens of Palestinians have died in protests as the U.S. prepares to open its Jerusalem Embassy”, provocando l’indignazione della stampa palestinese: chi ha operato e in quali circostanze sono avvenuti i fatti? Qualche ora dopo, viste le forti reazioni, l’insigne giornale americano cambia il titolo in “Israel Kills Dozens at Gaza Border as U.S. Embassy Opens in Jerusalem”.

Tra i tweet di protesta di maggior rilievo, quello di Glenn Greenwald, statunitense: “La maggior parte dei media occidentali sono diventati abili a scrivere titoli e a descrivere massacri israeliani usando il passivo in modo da nascondere il colpevole”.

Viene da chiedersi chi e quando tra palestinesi – orfani di una valida leadership politica – e israeliani – aspiranti auto deterministi geopolitici – porrà fine a questo logorante sanguinoso braccio di ferro asiatico di eco mondiale.