La fuga non era tra i progetti di Mussolini all’epilogo

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Furono in molti, negli ultimi mesi della Repubblica Sociale Italiana (RSI), a cercare di trovare il modo per portare il Duce in salvo. Ma Mussolini ha sempre rifiutato piani e progetti e respinto, senza se e senza ma, persino le sollecitazioni fattegli dal figlio Vittorio, quello a lui più vicino.


Milano, 30 aprile 1945, Obitorio milanese di via Ponzio 21. Il dottor Pierluigi Cova, medico radiologo, compila con scrupolo, ad uso personale, un verbale di autopsia della salma di Benito Mussolini. All’accertamento necroscopico era preposto il medico settore ufficialmente incaricato alla bisogna: il dottor Caio Mario Cattabeni dell’Istituto di Medicina Legale dell’Università di Milano. Durante la ricognizione sui pantaloni del cadavere mussoliniano, ecco saltare fuori un documento sorprendente. Sul Corriere della Sera del 24 Settembre del 1994 si legge, infatti, quanto segue: “Nella tasca posteriore dei pantaloni si rinviene una busta gialla intestata al “Fascio Repubblicano Sociale di Dongo” senza indirizzo, che contiene un foglio di carta da lettera intestato al Consolato Spagnolo di Milano: il foglio, non sdrucito, porta la data del 14 settembre 1944 ed è scritto a macchina con caratteri scuri, in lingua spagnola: nel complesso sono circa quattro o cinque righe: metà di una di queste porta scritti in matita, con i caratteri della calligrafia spagnola, i nomi di due coniugi “Isabella y Alonso” (segue il cognome che non ricordo). In calce alla lettera, all’angolo superiore destro su tre righe, è scritto con calligrafia minuta, a matita “a macchina in rosso, in inchiostro rosso, poi cancellare”. Il testo della lettera non è ricordato ma il suo tenore è questo: Si pregano le autorità spagnole di accogliere i Signori (i nomi sono sopraccitati) profughi della guerra attuale e cittadini spagnoli che vogliono rientrare in patria. Firmato è, con firma ben chiara, il nome del Console Spagnolo a Milano. La lettera viene consegnata al generale medico partigiano (Guido, probabilmente Aldo Lampredi, ndr) perché la depositi alla sede del Comitato nazionale centrale di Liberazione. Tra noi presenti nella Sala Anatomica ci si pone la soluzione del problema riguardante la lettera ritrovata: è una lettera troppo poco sgualcita per essere dello scorso anno: indubbiamente è retrodatata al settembre 1944 ma è assai recente e i nomi dei personaggi sopra indicati sono i falsi nomi sotto i quali dovevano celarsi Benito Mussolini  e Claretta Petacci: i nomi, scritti in matita, avrebbero dovuto a suo tempo, secondo le indicazioni date in calce al foglio, essere ricalcati con inchiostro rosso”.

Reso noto per la prima volta nel Settembre del 1994, questo verbale autoptico non ufficiale e le connesse rivelazioni hanno dato il via al consueto carosello di voci e di illazioni giornalistiche sul presunto espatrio in Spagna organizzato da Mussolini attraverso il consolato spagnolo di Milano, un colluso elargitore di documenti falsificati.

 Sul quotidiano milanese il Cova, intervistato, afferma; “Secondo me la data del documento era stata retrodatata e il lasciapassare doveva servire a Mussolini ed alla Petacci per passare dalla Svizzera in Spagna, dove avrebbero trovato protezione. C’era ancora Franco al potere, sicuramente li avrebbe aiutati”. L’ipotesi coincide con alcuni fatti storicamente accertati: anche il fratello della Petacci, Marcello, fermato a Dongo il 27 aprile del 1945, aveva con se falsi passaporti rilasciati dalla rappresentanza diplomatica spagnola. Non gli sono serviti. E’ stato, infatti, smascherato ed ucciso (A. Zanella. L’ora di Dongo. Rusconi, 1993). E’ mai pensabile che Mussolini avesse bisogno, come i Petacci, di passaporti, sia pure posticci, per tentare un espatrio clandestino in Spagna? La sua fisionomia inconfondibile poteva essere nascosta sotto un nome fasullo? Le autorità spagnole avrebbero avuto la necessità di contraffare delle carte per consentire al Duce del fascismo l’ingresso sottobanco nel paese iberico? Ipotesi del tutto inconsistenti. A questo si aggiunga il ritrovamento dei papiers in una busta intestata al “fascio repubblicano” di Dongo: il che significa una loro manipolazione dopo la cattura. Per una volta tanto, anche lo storico Silvio Bertoldi, aduso al vetrioleggiamento caricaturale di Mussolini per prassi congenita, fornisce una spiegazione plausibile su quel ritrovamento: “Un salvacondotto spagnolo in tasca a Mussolini? E’ una novità. Ritengo più probabile che ad utilizzarlo dovessero essere Claretta ed il fratello. Mussolini voleva che tutta la famiglia Petacci riparasse in Spagna, ma Claretta rifiutò, come noto, per restargli vicina. Non volle imbarcarsi sull’aereo in partenza da Ghedi e lo raggiunse a Menaggio. Forse aveva lei, inizialmente in tasca quel salvacondotto. E nella notte che passarono insieme, dopo essere stati catturati dai partigiani, Claretta passò il documento a Mussolini (E. Rosaspina. Benito e Claretta. Passaporto per la salvezza. Corriere della Sera, 24 Settembre, 1994).

Alcuni dei documenti rilasciati a Marcello o a Claretta Petacci, sequestrati a Dongo, inseriti nella prima busta capitata sottomano, devono essere finiti, in un secondo tempo, nelle tasche di Mussolini. Si tratta, forse, degli stessi passaporti concessi ai Petacci e ad altri del loro gruppo familiare già nell’estate del 1944. Ne ha parlato il console generale di Spagna a Milano, Fernando Canthal y Giron, dopo essere stato convocato dal dittatore a Gargnano l’8 luglio di quell’anno (A. Zambarbieri. La repubblica di Salò e Mussolini visti da un osservatore spagnolo. Humanitas, n° 2, 1982). Potrebbero essere stati anche altri, consegnati più tardi, quando il 22 aprile del 1945 l’imbarazzante famiglia Petacci si dirige, con armi e bagagli, verso la Spagna del generalissimo franco (M. Petacci. Chi ama è perduto. Riverdito, 1988). Il problema dei passaporti spagnoli sembra dunque risolto. Il dittatore fuggiasco non voleva rifugiarsi in Spagna.

Sul libro di Antonio Bonino intitolato: Mussolini mi ha detto (Settimo Sigillo, 1995) c’è scritto: Stavo in quei giorni predisponendo alcune iniziative per salvare il Duce nel caso di un disastro. Avevo preso contatti con la medaglia d’oro Enzo Grossi (comandante della Seconda Divisione di Fanteria di Marina della Decima Mas, ndr), con Apollonio funzionario del ministero dell’Interno (vice capo della Polizia della RSI, ndr); col direttore dell’Ala d’Italia e col console Casalinuovo (colonnello della Guardia Nazionale Repubblicana e Ufficiale d’Ordinanza del Duce, ndr). Era stata prevista la possibilità di un imbarco a Genova su un sottomarino di cui Enzo Grossi avrebbe preso il comando; si era predisposto un apparecchio a lunga autonomia del tipo che aveva eseguito la crociera Roma-Tokio; un ufficiale della Decima Mas avrebbe preso il comando di un piccolo sottomarino a Trieste ed il colonnello di aviazione Casalinuovo, cugino del console Casalinuovo, era pronto a paracadutarsi nella conca della costa jonica per accogliere, col sottomarino in attesa a Trieste, lo sbarco del Duce, qualora a suo tempo fosse stata scelta questa soluzione. Infine Apollonio, funzionario del ministero degli Interni, aveva rintracciato due ville che davano l’assoluta garanzia di poter occultare il Duce per un lungo periodo di tempo e mi doveva accompagnare a visitarle, quando improvvisamente venne arrestato dai tedeschi. Nel colloquio con Buffarini (Ministro degli Interni della RSI, ndr) appresi, non senza stupore, che egli era a conoscenza dell’iniziativa intrapresa dall’Apollonio. Mi espresse infatti il suo rammarico per l’avvenuto arresto che mi veniva a porre nell’impossibilità di effettuare la già predisposta visita alle due ville, visita preventivamente stabilita con Apollonio per il giorno successivo a quello in cui venne arrestato. Confermò che il Duce non intendeva lasciar muovere alcun passo per la propria salvezza in caso di disastro; si disse però felice di incoraggiare qualsiasi tentativo in materia, anche in contrasto con la volontà dell’interessato. Probabilmente era anche a conoscenza di tutto il complesso delle iniziative da me prese ma non ne fece cenno. Io, nel timore volesse indagare su questi da me considerati segreti e come tali scrupolosamente rispettati, mi chiusi nel più impenetrabile mutismo”. Il Duce aveva respinto le proposte che ha illustrato il Bonino nel Febbraio del 1945. Gli erano state fatte dall’ex capo della Polizia di Salò Tullio Tamburini, il diretto superiore dell’Apollonio (M. Viganò. Mussolini, i gerarchi e la “fuga” in Svizzera 1944-’45. Nuova Storia Contemporanea, n° 3, 2001).

Sul Secolo d’Italia n° 23 (sabato 25 Gennaio, 1958) Enzo Grossi, che già conosciamo, ha scritto:“Qualche giorno dopo chiamò S.E. Tamburini e mi espose un suo piano inteso a porre in salvo la vita del Duce, purché io potessi disporre di un fidato equipaggio di sommergibile. Mi spiegò che con il beneplacito dei Giapponesi sarebbe stato allestito un grosso sommergibile che al mio comando doveva prendere il mare, al momento opportuno, con a bordo la famiglia di Mussolini e i miei congiunti. Tutto era stato previsto per mantenere il segreto e per soddisfare le esigenze dei familiari dell’equipaggio; durata prevista della missione: un anno. Mi impegnai in senso affermativo. Tamburini si propose di parlarne a Mussolini. Qualche giorno dopo lo stesso Tamburini mi comunicava che tutto era andato a monte poiché il Duce si negava perentoriamente a quella che considerava una fuga. In occasione di un colloquio che ebbi nel mese di febbraio del 1945 Mussolini mi ringraziò per quanto ero disposto a fare e mi disse: <Comprendo perfettamente quali sentimenti hanno indotto Tamburini a progettare la nota missione sottomarina e ringrazio anche voi su cui potrei fare il massimo affidamento, ma io non ho nessun interesse a vivere come un uomo qualunque>”.

Altre iniziative di fuga con meta la penisola iberica sarebbero state orchestrate verso la fine del 1944 da Mario Niccolini, ispettore dei Fasci Repubblicani in Spagna fra l’aprile ed il settembre del 1944, quindi segretario generale dei Fasci all’Estero e d’Oltremare presso la Direzione Nazionale del Partito Fascista Repubblicano fino al gennaio del 1945. L’idea, anch’essa respinta o almeno non considerata con sufficiente attenzione, avrebbe avuto origine dalla seguente constatazione: sebbene il governo di Franco non potesse garantire l’esilio a Mussolini ed ai suoi gerarchi, sia pure per un limitato periodo di tempo, un rifugio era, viceversa, possibile, per un vincolo cameratesco, presso le famiglie dei combattenti spagnoli della guerra 1936-1939. Così Marino Viganò (www.italiasocialr.org. Reperibile per via telematica) descrive questo ennesimo tentativo fatto per porre in salvo il Duce: Il governo spagnolo assolutamente no: Franco non avrebbe mai permesso un passo del genere, perché Franco aveva svolto una politica troppo realistica, era troppo “spagnolo” per compromettere il paese. Però, io avevo sostenuto una tesi con Renato Ricci (ex comandante della Guardia Nazionale Repubblicana, ndr): sarebbe stato possibile trovare un asilo provvisorio a Mussolini, ma fuori del controllo del governo spagnolo. Sarebbe dovuto essere tra spagnoli, siccome lo spagnolo è di temperamento molto generoso, molto impulsivo ed ero sicuro che negli ambienti di coloro che avevano combattuto la guerra civile si sarebbe trovato un rifugio con sufficiente facilità. Ma, comunque, in contrasto con le autorità spagnole che, certamente, ufficialmente non avrebbero mai acconsentito ad accogliere Mussolini. Non sarebbe stato difficile. La Spagna è grande, non è sovrappopolata e un rifugio si sarebbe trovato facilmente, se non in Spagna, in un’isola spagnola fuori del continente. Questo è ciò che io avevo suggerito a Renato Ricci: un trasporto aereo in Spagna e la ricerca, là, di un rifugio temporaneo, salvo poi negoziare con gli Alleati o chi per essi. Io ne parlai, appunto a Ricci ed egli prese in considerazione la proposta, parlandone con Vittorio Mussolini (figlio primogentito del Duce, ndr) che era ispettore dei Fasci in Germania. Poi Ricci mi rispose: <Caro Piccolini, hanno detto che provvederanno loro, che sono sicuri, che hanno già predisposto tutto, che è già tutto previsto>. Questo è accaduto nel dicembre ’44, prima di Natale e dopo la famosa offensiva tedesca di von Rundstedt nelle Ardenne, che abortì. Fu allora che mi resi conto che non c’era più nulla da fare. Andai da Ricci e gli sottoposi quella proposta. Io avevo pensato a due possibili soluzioni: un aereo o un sommergibile. La proposta partì da me personalmente: io chiesi addirittura di andare a parlarne personalmente in Spagna. Conoscevo l’ambiente spagnolo proprio perché avevo partecipato alla guerra civile a fianco di truppe spagnole e quindi avevo tanti amici, là: trovare appoggi non era difficile, anche se non nel governo o fra le autorità. Si era prima del Natale del ’44 e, dopo due o tre settimane, Ricci mi diede una risposta negativa. Mussolini e gli altri, infatti, contavano molto di poter organizzare il “ridotto” in Valtellina”.

Con gli inizi del 1945 tutte le varie proposte per salvare il Duce erano risultate vane. Ma subito dopo sembra prendere piede un nuovo intento finalizzato a persuadere il dittatore, ormai in balia del destino, affinchè accetti di riparare in Spagna o nelle colonie spagnole atlantiche. Leggiamo cosa dice il Viganò in proposito (op. cit.): “Del tentativo (ndr) ne parla oggi, per la prima volta, Ugo Noceto, capitano dell’Aeronautica, sequestratario delle ditte “Glaxo” e “Tiberghien” di Verona, amico di Vittorio Mussolini e di Orio Ruberti della segreteria particolare del Duce, collaboratore di Piero Cosmin, capo della provincia di Verona dal settembre ’43 e di Venezia dal maggio al luglio ’44. La vicenda prende avvio il 15 febbraio ’45: Il fatto più eclatante, che secondo me avrebbe potuto riuscire, è avvenuto quando Piero Cosmin (Prefetto di Verona, ndr) ha lasciato la prefettura di Venezia ed è stato distaccato al ministero degli Interni. Eravamo ai primi del ’45, Cosmin è stato chiamato da Buffarini Guidi: <Vieni domani a Milano, in Corso del Littorio 9, era un rifugio segreto di Mussolini, e porta anche il tuo amico aviatore. Cioè, io>. Ci siamo andati. Buffarini Guidi ci dice: <Qui le cose si mettono male, oramai non c’è più niente da fare e bisogna cercare di salvare Mussolini in qualche modo. Lui non vuole, ma bisogna cercare in modo assoluto di salvarlo, perché se Mussolini è in salvo, o in Spagna o in Argentina, può fare del bene all’Italia. Lui non vuole, ma volente o nolente, bisogna portarlo via. Guarda, qui ci sono degli indirizzi dove si può vedere di trovare qualche cosa. L’unica soluzione è l’aereo, perché è troppo conosciuto>. Cosmin ha risposto: <Va bene, ma bisogna che sia d’accordo anche Vittorio>. E Buffarini: <Aspettate, che Vittorio viene subito>. Vittorio è arrivato, ha detto senz’altro di si, ma ha ribadito: <Guardate che però mio padre non vuole. Comunque, interessatevi>. Io avevo un po’ di pratica di aviazione e ho detto: <Nei campi dove si attivano i pochi aerei italiani, ci sono anche i tedeschi. Anche a partire, hanno un’autonomia di un’ora e sono aerei da guerra, un affaraccio>. Pensa che ci ripensa, dico: <Lasciami tentare, Piero, vado io perché forse ho la strada>.  Quand’ero ufficiale di collegamento, avevo i campi di Novi Ligure, Revaldigi, Sarzana, Genova-Lanterna e Villanova d’Albenga, e li giravo sempre. Mi recavo di frequente anche all’Aeronautica “Piaggio” di Finale Ligure e ho visto che avevano un idrovolante ed un anfibio. Collaudatore ufficiale della “Piaggio” era un mio grande amico, Aldo Monetti, ufficiale dell’Aeronautica là distaccato, oltre al Genio aeronautico. Ho detto a Cosmin: <Lasciatemi andare a parlare con Moneti>. Moneti mi ha portato dall’amministratore della “Piaggio”, e abbiamo trovato il mezzo di portar via Mussolini. Forse un mezzo non bello, ma che sicuramente sarebbe riuscito: un’aeroambulanza. Quanto all’autonomia, ce n’erano pochi tipi, uno dei quali partiva da Finale, faceva tutta la Sardegna e poi ritornava. Poteva portare tre persone e l’attrezzatura, per cui levando quest’ultima Moneti, grande pilota, non come me, era sicuro. Il progetto è: pigliamo quest’apparecchio attrezzato, lo portiamo all’”Aeronautica Macchi” di Vengono avvertendo il capo della provincia di Varese, Enzo Savorgnan di Montaspro, e lo teniamo pronto. Moneti soggiorna a Bodio Lomnago, a villa Puricelli, e al momento opportuno, volente o nolente, prendiamo il Duce e lo portiamo via. Da Vengono andiamo a Villanova d’Albenga all’hangar, facciamo il pieno di benzina, poi via verso l’isola di Gallinara, poi volo radente con l’apparecchio leggero e l’emblema della Croce Rossa fino a Tolone. Prima di Tolone, la parte più difficile, secondo Moneti, traversiamo il golfo del Leone e andiamo o alle Baleari o alle Canarie. L’autonomia c’era, a patto di non portare scarponi né altro che potesse diminuire la velocità. Il golfo del Leone era molto pericoloso per il vento. Ho battuto a macchina la relazione con disegni e piani. Telefoniamo a Buffarini Guidi: <Bene! Bene! Portali a Corso del Littorio 9, a Milano>. Ma ho l’impressione che Vittorio Mussolini non abbia mai avuto questa mia relazione, perché ho portato io stesso questa relazione a Milano, poi ho aspettato, ma non è successo niente. Da Finale, sempre telefonate: <Cosa dobbiamo fare?>. Bisognava pagare l’aereo alla “Piaggio” e un piccolo compenso a Moneti, con un soggiorno di almeno un mese in Spagna perché l’aereo non sarebbe più ritornato. Dopo qualche tempo, Cosmin mi dice: <Andiamo da Savorgnan>. Ci andiamo, telefoniamo ma non riusciamo mai a trovare Buffarini Guidi. Poi finalmente parliamo con gli Interni e ci dicono: <Complimenti per questo piano, ma teniamolo in sospeso perché c’è un nuovo ministro, Paolo Zerbino, che ha l’idea che tutto si può accomodare tramite il cardinale Schuster>. Cosmin, testardo, dice: <Io non ci sto!>. Telefona, cerca di mettersi in contatto con Vittorio Mussolini, ma non ci riesce: silenzio da tutte le parti. Allora mi dice: <Vieni, Ugo, andiamo a Milano in Corso del Littorio 9, oppure direttamente a Gargnano a villa Orsoline. Qualcosa facciamo: io ho una questione amministrativa da risolvere, tu devi avere il rimborso delle tue spese>. Il mattino dopo lo raggiungo, facciamo colazione, poi scendiamo. Cosmin accarezza i cani, si curva e lo vedo stramazzare. Telefono a Savorgnan, lui è arrivato con un dottore: <Niente da fare, tubercolosi galoppante. Bisogna trovare un posto di ricovero>. I sanatori erano in località pericolose per via dei partigiani, lui voleva stare vicino a noi, abbiamo fatto un po’ di prepotenza e l’abbiamo ricoverato alla clinica “La Quiete” di Varese. Così, io che credevo di diventare un piccolo eroe, non ho potuto far niente per Mussolini. Eppure, sono sicuro che il piano sarebbe riuscito, anzitutto per l’abilità come pilota del capitano Aldo Moneti, e poi perché l’aereo sarebbe passato inosservato: lui conosceva tutta la zona, faceva tutta la costiera a volo radente e passava inosservato. Sarebbe stato l’unico modo per metterlo in salvo, studiato da ingegneri dell’Aeronautica. All’epoca c’era un asso di nome Francesco Lombardi, abbiamo interessato anche lui, ed anche lui era d’accordo.”

Anche alla vigilia della fine il generale Ruggero Bonomo, sottosegretario all’Aeronautica presso il ministero delle Forze Armate, ha prospettato al Duce una via di salvezza. Mussolini avrebbe dovuto recarsi presso la famiglia spagnola della moglie del suo segretario particolare, Luigi Gatti. La risposta del capo del fascismo è stata ancora una volta tassativa: un risoluto e drastico diniego: “Io avevo fatto preparare da tempo un aeroplano su cui, nel più stretto incognito, Mussolini avrebbe dovuto salire nei giorni immediatamente precedenti il 25 aprile, per sottrarsi alla cattura da parte dei partigiani e degli alleati. L’aeroplano era un Savoia-Marchetti S 79, da me fatto trasferire segretamente presso il campo d’aviazione di Ghedi, in provincia di Brescia. Quel campo era infatti uno dei pochi rimasti a disposizione della nostra aeronautica. L’aereo recava a bordo un equipaggio particolarmente addestrato, deciso nell’azione, avvertito dello scopo della missione e francamente votato a condurla a compimento. Quanto alla destinazione, non avevo dubbi: doveva trattarsi della Spagna, paese raggiungibile con poche ore di volo, con una rotta che era quasi del tutto al di fuori dei controlli nemici. Per di più la Spagna era governata da un uomo che doveva molto al Fascismo, che era mio personale amico e che manteneva nel conflitto una posizione di neutralità, in grazia della quale avrebbe potuto accogliere un esule politico fuggiasco. In Spagna, era previsto, Mussolini sarebbe stato accolto dai parenti della moglie di Gatti, suo segretario particolare poi fucilato a Dongo, che era una spagnola. La signora Gatti era stata da me messa al corrente di ogni cosa ed aveva dato il suo pieno consenso. Nella peggiore delle ipotesi, se la situazione internazionale di quei giorni avesse impedito a Franco di compromettersi, conferendo asilo e protezione all’ospite, Mussolini avrebbe potuto in un secondo tempo essere consegnato agli alleati, sottraendolo però alla tragica fine di Giulino di Mezz’egra. Per coprire nel miglior modo possibile l’operazione, e dissipare ogni sospetto tedesco, avevo provveduto a far iscrivere i membri dell’equipaggio all’Aereo Club di Ghedi come normali appassionati di volo, mentre erano garantite ad ogni istante le scorte di carburante e la possibilità di immediato decollo. La dimostrazione che il volo avrebbe avuto il cento per cento di successo è data dai fatti. Quel volo ebbe luogo e quell’apparecchio passò realmente e senza ostacoli in Spagna: fu esattamente il 22 aprile 1945. Senonché non c’era Mussolini. Nella carlinga dell’S 79 sedevano quel giorno il professor  Francesco Petacci, sua moglie e sua figlia Miriam, la moglie dell’ambasciatore germanico a Lisbona e l’avvocato Mancini, un amico dei Petacci, che portava con sé una documentazione dei crediti italiani nei riguardi della Spagna. Atterrarono indenni a Barcellona, furono accolti nel paese come profughi, ebbero salvezza e tranquillità. L’equipaggio venne internato fino alla fine della guerra, l’aeroplano fu naturalmente sequestrato. L’avventura si concluse senza risonanze di sorta. Quanto a Mussolini, egli si rifiutò caparbiamente di lasciare l’Italia e di mettersi in salvo. Mi espresse il suo rifiuto in forma categorica, quando mi recai da lui per sollecitarlo a partire, con queste parole: <Io sono qui e resterò qui fino in fondo. Che cosa volete che m’importi ormai, Bonomi, di questa mia sporca pellaccia?>. Ripeto: avrebbe potuto salvarsi. Non lo fece di proposito, e mi pare un sintomo della rassegnazione al destino che molti avvertirono in lui negli ultimi giorni a Milano” (S. Bertolini. Parla Bonomi. Avevo preparato un aereo per la salvezza del Duce ma lui non ne volle sapere. Oggi, n° 17, 1962; Idem. La guerra parallela 8 settembre 1943-25 aprile 1945. Sugarco, 1963).

Di questa cocciutaggine a non voler espatriare in Spagna, nonostante la praticabilità dell’offerta di Bonomi, il figlio del Duce, Vittorio Mussolini, ha lasciato a sua volta una sua testimonianza in un libro di memorie. L’offerta sarebbe stata da lui rinnovata al padre il 25 aprile del 1945, nel primo pomeriggio, alla vigilia del colloquio organizzato in Arcivescovado dal Cardinale Ildefonso Schuster (A. M. fortuna. Incontro all’Arcivescovado. Sansoni, 1971). Mussolini si sarebbe incontrato con i rappresentanti del del CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale per l’Alta Italia) per trovare un accordo che ponesse fine alla lotta fratricida tra fascisti ed antifascisti: “Il generale Bonomi, capo dell’aviazione repubblicana, mi aveva confermato che sul campo di Ghedi, vicino a Brescia, c’erano ancora dei trimotori “Savoia-Marchetti 79” in grado di prendere il volo. <Ieri ho parlato con il generale Bonomi, a Ghedi ci sono due aerei pronti al decollo. Si potrebbe raggiungere la Spagna, qui siamo alla fine>. Da molti giorni mio padre era stato, da ogni gerarca che lo avvicinava, tempestato di progetti di fuga e salvezza. Buffarini Guidi, aveva in mente l’uso di un sommergibile atlantico ancorato a Trieste. Renato Ricci un volo verso la Sicilia su un piccolo aereo o un Mas. Ma l’indifferenza di mio padre per qualsiasi piano di salvezza rasentava ormai la più ottusa testardaggine. Non rispondeva con ironia, ma duramente. Mi disse: <E’ questa di Bonomi la soluzione migliore per risolvere la nostra situazione?E in quale gigantesco velivolo infileresti tutti questi fascisti che sono qui al Nord attorno a me?>. Riuscii a trovare ancora fiato per mormorare: <Potremmo dirigerci in Baviera, e continuare la lotta contro i russi>. <Siamo alla fine, anche per la Germania i giorni sono contati. Gli Dei se ne vanno>. Provai ad insistere e ne ebbi una risposta dura: <Nessuno ti ha pregato di interessarti della mia personale salvezza. Sono in attesa di alcune risposte importanti dalle quali dipende la mia decisione finale>” (V. Mussolini. Vita con mio padre. Mondadori, 1957).

Anche durante il tragitto che avrebbe dovuto condurlo in Valtellina (27 aprile 1945) molti dei gerarchi dell’entourage del Duce gli proposero di espatriare in Svizzera. Tra questi il Prefetto di Como Renato Celio, l’ex Ministro degli Interni Guido Bufarini Guidi e il Ministro dell’Economia Corporativa Angelo Tarchi (M. Viganò. op. cit; A. Tarchi. Teste dure. SELC, 1967). A tutti Mussolini rispose che il suo unico proposito era quello di trincerarsi in Valtellina per attendere l’arrivo degli alleati con cui patteggiare una pace onorevole (V. Podda. Morire col sole in faccia. Ritter, 2005). Gli incaratamenti di cui era in possesso potevano garantirgli un ampio spazio di trattativa (F. Andriola. Mussolini-Churchill. Carteggio segreto. Piemme, 1996; F. Andriola. Carteggio segreto. Churchill-Mussolini. Sugarco, 2007). I momenti convulsivi dell’epilogo, i travisamenti sulla reale consistenza delle forze partigiane ed il desiderio di non compromettere con la sua presenza città del circondario lariano hanno fatto sì che il dittatore perdesse inutilmente un tempo prezioso. Ciò è stato il prodromo della fine: la morte a Giulino di Mezzegra avvenuta il 28 aprile del 1945.