L’applicazione della teoria del caos alle scienze economiche è di recente concezione. Diversi ricercatori – tra cui L. S. Dolan, L. A. Fitzgerald e R. T. Pascale – hanno cercato di studiare come la teoria del caos possa contribuire al successo aziendale. Gli studiosi partono dal presupposto che il mantenimento dello status quo, benché garantisca stabilità e crescita nel breve periodo, nel lungo termine può limitare, se non danneggiare, la crescita organica delle singole realtà aziendali e, di riflesso, del Paese. Secondo Pascale, il mantenimento dello status quo è sinonimo di occasione persa (“missed opportunity”) perché non consente alle aziende di beneficiare in termini di competitività da un processo di rinnovamento continuo. Con il passare del tempo, infatti, le prassi e anche le menti tendono a ruotare attorno a concetti prestabiliti.
In inglese questo concetto è noto come “knowledge ossification”. Messa in questi termini, la teoria del caos non è quindi sinonimo di anarchia come il termine, ingannevolmente, potrebbe suggerire. La suddetta teoria si prefissa come obiettivo quello di studiare come fornire alle aziende gli strumenti per conseguire espliciti vantaggi in termini di competitività. Cerchiamo di comprendere come applicare la teoria del caos all’economia e, in particolare, alla realtà italiana. In primis deve esserci un continuo ricambio non solo all’interno del management, ma anche ai livelli di più junior degli organigrammi aziendali. Per assoldare nuovi talenti e tramutare l’esperienza maturata presso altre realtà in nuove idee e prodotti è necessario che il mercato del lavoro sia sufficientemente flessibile e dinamico. Inoltre, al fine di tramutare idee e know-how in prodotti e servizi innovativi è necessario che le strutture aziendali siano sufficientemente snelle e capaci di incentivare la comunicazione tra tutti i livelli.
Se è vero che le strategie aziendali vengono concepite dai top manager e successivamente implementate dai quadri intermedi, è anche vero che molto spesso che idee più creative ed innovative nascono dall’inventiva degli addetti al lavoro ovvero chi quotidianamente ricopre le mansioni più operative. Emblematico è il caso di 3M. L’invenzione dei foglietti gialli adesivi – i post-it – non è maturata al termine di lunghe riunioni tenutosi ai piani alti dell’azienda, bensì è nata (quasi per caso) grazie all’inventiva di un dipendente. L’idea dei post-it piacque al caporeparto e venne in seguito proposta al reparto che si occupa della concezione di nuovi prodotti. È stata la fortuna della 3M. Infine, spetta alle autorità e alle politiche governative il compito di incentivare, e non ostacolare, la creazione tali processi destinando non solo fondi alla ricerca, ma anche investendo sulla formazione professionale (e culturale) delle future classi dirigenti. Analizzando da vicino la situazione economica italiana è difficile trovare riscontro dell’applicazione della teoria del caos nel contesto socio-economico contemporaneo. Dati alla mano, appare evidente che l’economia italiana abbia perso smalto e vigore nel corso delle ultime decadi.
Una combinazione di bassa produttività e alti salari sta erodendo la competitività del Paese: mentre la produttività è aumentata di un quinto in America e di un decimo in Gran Bretagna nel corso dell’ultimo decennio, in Italia questa è scesa del 5%. L’Italia è all’ottantesimo posto nella graduatoria “doing business” della Banca Mondiale (dietro a Bielorussia e Mongolia) e al quarantottesimo posto nella classifica del World Economic Forum per competitività (alle spalle di Indonesia e Barbados). Analizzando punto per punto i capisaldi della teoria del caos è possibile comprendere il perché non vi sia un riscontro pratico della teoria del caos nella realtà economica nostrana. Innanzitutto si può notare come non vi sia un sufficiente ricambio generazionale all’interno della classe dirigente italiana. Secondo i dati pubblicati di recente dalla rivista Forbes, l’età media degli amministratori delegati italiani delle principali quaranta aziende è di 58 anni. L’età media dei manager italiani è leggermente più alta rispetto a quella delle controparti statunitensi. Negli Stati Uniti la media è di 56 anni. Più che la differenza d’età media (2 anni ovvero quasi il 5%) il dato più interessante è rappresentato dalla distribuzione dei valori. Negli Stati Uniti i manager over 60 sono il 20% (8 nella top 40) mentre in Italia sono esattamente la metà del campione (20 su 40).
Questi dati testimoniano che all’interno degli organigrammi aziendali vi è un tale immobilismo da precludere alle nuove generazioni di manager di ricoprire mansioni di responsabilità. Per quanto concerne l’intervento governativo in materia di occupazione, vi sono stati timidi tentativi di incentivare l’occupazione – vedasi la riforma Treu e la successiva legge Biagi (anche se formalmente il nome più corretto sarebbe legge Maroni). Entrambe le riforme hanno posto l’enfasi quasi esclusivamente sulla mobilità numerica incentivando la creazione di contratti atipici (stage, assunzione interinali a tempo determinato e a progetto). Nessuna delle recenti politiche occupazionali ha invece cercato di valorizzare la figura del dipendente, sia dal punto di vista professionale che umano. La flessibilità retributiva – ovvero l’adeguamento delle retribuzioni in base alla performance dei dipendenti – e funzionale (mobilità aziendale interna) rimangono concetti pressoché sconosciuti. Ancor più preoccupanti sono i dati riguardanti l’istruzione e la formazione di studenti e neolaureati. Secondo quanto riportato da uno studio dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OECD), l’Italia è uno dei principali esportatori di studenti e neolaureati – da cui l’espressione “cervelli in fuga” – che, constatata la difficoltà di valorizzarsi professionalmente in Patria, sono costretti a cercare fortuna all’estero. Questo processo determina un impoverimento del prodotto “Italia” e rischia di lasciare in eredità alle prossime generazioni un Paese senza futuro.
Per invertire questo trend è necessario implementare una serie di riforme. In primis è di fondamentale importanza attuare una profonda revisione della scuola dell’obbligo e dei corsi universitari. Se è vero che i giovani di oggi sono i leader del domani, è necessario impegnarsi a invertire la rotta partendo proprio da un riassetto delle politiche di formazione e di inserimento dei giovani nel mondo del lavoro. Vi deve essere innanzitutto una riforma della scuola secondaria. Nel Regno Unito gli studenti che frequentano il dodicesimo anno (l’equivalente del quarto anno del liceo) hanno la possibilità maturare qualche esperienza lavorativa in realtà mediamente strutturate. Ciò può aiutarli a scegliere quali corsi universitari – e quindi quale carriera – intraprendere un domani. In secondo luogo, è necessario attuare una profonda revisione dei contenuti dei corsi universitari al fine di renderli più pratici – e meno teorici – e in grado di facilitare l’inserimento degli studenti al mondo del lavoro. Per quanto concerne il mercato del lavoro, vi deve essere sia una maggior flessibilità funzionale sia una valorizzazione della risorsa umana tutelando e sviluppando la medesima attraverso periodici corsi di aggiornamento e stimolando la mobilità interna. Tali processi facilitano l’apprendimento e la condivisione di know-how e, in ultima analisi, mettono sia il datore di lavoro sia il dipendente nelle condizioni attitudinali per stimolare la ricerca e il progresso. Per attuare questo processo di rinnovamento è necessario che lo Stato venga incontro alle aziende e ai singoli abbattendo i numerosi vincoli burocratici e destinando più fondi alla ricerca e all’istruzione.
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