La parola solstizio deriva dal latino solstitium, a sua volta riconducibile alle espressioni sol (sole) e stat (stare, rimanere fermi). In effetti, si tratta del momento dell’anno in cui il sole, nel suo apparente moto ellittico, raggiunge il punto di declinazione minima (dicembre) o massima (giugno) rispetto all’equatore, e sembra quindi fermarsi. Che fosse la Terra a ruotare, gli antichi non lo sapevano. Di certo, però, avevano colto la straordinarietà di questi giorni, che ritenevano sacri. In particolare le civiltà precristiane, celtiche e indoeuropee, festeggiavano il Solstizio d’Estate come massima espressione dello splendore solare, cui sarebbero seguiti giorni sempre più brevi fino al ritorno della brutta stagione. Il giorno più lungo dell’anno, accompagnato dalla notte più breve, era considerato il 24 giugno. In questa data il sole entra nel Cancro, segno zodiacale d’acqua e di dominio lunare: la tradizione celebrava con il sabba l’unione tra i due astri, rispettivamente simboli del Dio e della Dea ancestrali. La festa era un inno al creato, e le pratiche messe in atto si rifacevano a tale credenza.
Anzitutto, era il periodo migliore per raccogliere erbe e piante: si pensava che in questa circostanza il loro potere magico e la loro efficacia taumaturgica fossero potenziati. Così, quelle dell’anno precedente erano bruciate e sostituite dalle nuove. Tra le più utilizzate l’iperico (Hypericum perforatum), l’aglio (Allium sativum), la cipolla (Allium cepa), la ruta (Ruta graveolens), l’artemisia (Artemisia vulgaris) e la lavanda (Lavandula officinalis). Ma anche il cardo (Silybum marianum), l’erba di S. Giovanni (Sedum telephium), l’agnocasto (Vitex agnus-castus); e ancora verbena (Verbenaca vulgaris), ribes rosso (Ribes rubrum), rosmarino, salvia e prezzemolo. La loro principale funzione era protettiva: si appendevano alle finestre, si tenevano in tasca o si facevano essiccare per ottenere amuleti; poste sotto al cuscino favorivano sogni premonitori. Ma la superstizione era affiancata dalla saggezza, poiché si sfruttavano le innumerevoli proprietà officinali della vegetazione, tuttora riconosciute dalla medicina.
Fra le tante usanze vi era la preparazione della “acqua di San Giovanni”: nella fatidica notte, le suddette erbe venivano messe a bagno in una vasca piena d’acqua; al mattino, lavandosi con essa, si otteneva bellezza, salute e fecondità. Lo stesso accadeva con la rugiada, considerata benefica e raccolta con teli distesi sui prati, o appositi contenitori posti nel terreno. Inoltre, si accendevano nei campi e sulle colline grandi falò propiziatori, poiché luce e fuoco ricordavano la forza solare. Cantando e danzando, i contadini gettavano tra le fiamme cose vecchie e pupazzi, per allontanare la malasorte. Il bestiame era fatto passare nel fumo per proteggerlo dalle malattie, e la mattina le ceneri venivano cosparse sui corpi della gente. Infine, la notte di S. Giovanni era un momento propizio per la divinazione, in particolare quella inerente la sfera amorosa; i responsi sul futuro matrimoniale delle fanciulle si ottenevano tramite particolari utilizzi di vegetali (cipolle, cardi e fagioli), acqua e uova.
L’avvento delle grandi religioni monoteiste disperse parte di queste tradizioni. Le pratiche pagane erano mal viste, e furono sostituite da un apposito calendario liturgico. La Chiesa Cattolica poi fece corrispondere al solstizio estivo il giorno della nascita del Battista, esattamente sei mesi prima della natività di Gesù. Così, alla vigilia del 24, nella Basilica di San Giovanni in Laterano, si celebravano i vespri onorando il precursore di Cristo coi prodotti della natura. Fiori, frutti ed erbe erano disposti intorno alla sua icona e benedetti dal cardinale. Anche la rugiada, espressione della dea lunare, divenne simbolo delle lacrime di Salomè, pentita di aver fatto decapitare Giovanni Battista.
Eppure le antiche usanze non sono state completamente dimenticate, e ancora oggi sopravvivono in certe consuetudini popolari che riecheggiano gli antichi misteri. Dal noce, albero consacrato alle dee pagane e al centro di arcani rituali, si trae tuttora il nocino, liquore tipico della Val Padana. I suoi frutti immaturi sono raccolti a mano o con oggetti di legno il 24 giugno, e vengono fatti macerare nell’alcol a 95 gradi fino al 3 agosto. Aggiungendo all’infuso cannella, chiodi di garofano, scorza di limone, acqua e zucchero, e scuotendo il tutto due volte al giorno, si ottiene una bevanda corposa e digestiva. La tradizione vuole che, consumandola lentamente durante l’anno, rinsaldi rapporti d’amore e d’amicizia.