In conseguenza della situazione che si era determinata in Italia dopo lo sbarco degli angloamericani in Sicilia (9 luglio del 1943), una guerra era finita, ma in realtà ne stava per cominciare un’altra.
Occupata l’isola, le armate americane e inglesi erano approdate nella Calabria meridionale, premendo da Sud i tedeschi che, attuando un piano preordinato da tempo, avevano intanto dislocato nella maggior parte delle nostre regioni, in aggiunta a quelle già esistenti da tempo sul territorio italiano, altre 18 divisioni in perfetta efficienza. L’afflusso delle truppe tedesche nella penisola, attraverso il Brennero, era rapidamente aumentato dopo la caduta del fascismo (25 luglio del 1943), ovviamente in previsione di un cambiamento nella posizione di belligeranza degli italiani. A Roma l’annuncio dell’armistizio, dato con quattro giorni d’anticipo sulla data prevista, colse tutti di sorpresa e sconvolse i piani difensivi che gli Alti Comandi andavano a loro volta approntando in previsione di una reazione tedesca. La capitale, da tempo preparata a fronteggiare attacchi di paracadutisti e sbarchi angloamericani dal cielo e dal mare, si era trovata invece a dover contrastare all’improvviso gli intenti, più che chiaramente offensivi, degli ex alleati cobelligeranti. Questi, infatti, con un totale di 24 divisioni sistemate rapidamente nel corso dell’estate nei più importanti punti strategici, nodi ferroviari e stradali, porti e aeroporti, avevano di fatto occupato militarmente tutta l’Italia ed erano pronti ad attaccarci in qualsiasi momento ed in qualsiasi parte del Paese. In particolare intorno alla capitale esisteva un massiccio concentramento di truppe naziste, alle dirette dipendenze del generale Albert Kesselring, il cui comando aveva sede a Frascati. Altre truppe germaniche, per non meno di 12.000 uomini, occupavano Nettuno, Ostia, Fregene e Ladispoli, controllavano le vie Cassia e Nomentana, presidiavano i Colli Albani e i Castelli Romani. A Viterbo era stanziata la divisione “Panzergrenadieren”, con 24.000 uomini e 350 carri, mentre a Ostia e a Pratica di Mare era giunta, aviotrasportata dalla Francia, la 2° divisione Paracadutisti con 14.000 uomini effettivi. Le forze in campo erano schierate con un rapporto di consistenza numerica e qualità e quantità di mezzi decisamente sfavorevole per gli italiani. La difesa della capitale disponeva infatti di 6 divisioni: la “Granatieri di Sardegna”, la “Piave”, la “Centauro” e l’ “Ariete” inquadrate nel Corpo d’Armata Motocorazzato, la “Piacenza”, nel XVII Corpo d’Armata, e la “Sassari” inclusa nel Corpo d’Armata di Roma. Altre due divisioni di fanteria erano in trasferimento verso la città: la “Lupi di Toscana” e la “Re”, ma l’8 settembre solo due battaglioni della prima e uno della seconda arrivarono nella capitale. Per quanto il numero delle divisioni fosse elevato, otto in totale, in realtà i loro quadri erano molto ridotti e il personale militare molto provato, moralmente e materialmente, dalle campagne di Francia, di Grecia e di Jugoslavia. In complesso, soltanto due delle divisioni destinate alla difesa di Roma erano in grado di opporre una valida resistenza. Il sistema difensivo della capitale risultava pertanto costituito da: 1) Il XVII Corpo d’Armata a presidio della costa tirrenica; 2) Il Corpo d’Armata Motocorazzato preposto alla “difesa fissa esterna” dell’Urbe e quindi dislocato a grande distanza da Roma; 3) Il Corpo d’Armata di Roma (con un numero vario di unità), le forze di polizia, le truppe ai depositi, comandati per la “difesa interna” della città, per mantenere l’ordine pubblico e per garantire il servizio antincendio. Inoltre intorno a Roma si snodava una linea di capisaldi e di blocchi stradali costituiti da lavori campali in terra e da postazioni per mitragliatrici. Erano posti in corrispondenza di tutte le vie d’accesso alla capitale. Erano stati designati con un numero progressivo da 1 a 13. La linea che li congiungeva era lunga ben 28 chilometri, ma su di essa fu possibile schierare solo quattro battaglioni di Granatieri. Andavano dalle vie Claudia e Cassia fino alla Prenestina, tagliando le vie di Boccea, Ostiense, Laurentina, Ardeatina, Appia Nuova, Cave, Tuscolana e Casilina. Nonostante questo piano la quasi totalità delle forze situate fuori Roma non giunse in tempo e la difesa della capitale rimase affidata al Corpo d’Armata di Roma in cui, la sera dell’8 settembre, per far fronte alla situazione d’emergenza, era stata inquadrata la divisione “Granatieri di Sardegna”, già appartenente al Corpo d’Armata Motocorazzato. Inoltre ordini e contrordini, suscitando equivoci ed improvvisi spostamenti di truppe, vanificarono spesso gli sforzi di quanti cercavano di reagire all’aggressione tedesca. Fu comunque una difesa in cui il coordinamento e la gestione generale, che pure erano compiti degli Alti Comandi (che seguirono invece il re Vittorio Emanuele III nella notte del 9 settembre nel suo “trasferimento” a Pescara), vennero sostituiti dalle eroiche iniziative dei militari che, affiancati dai civili, lottarono fino all’estremo sacrificio, fermando per tre giorni il nemico preponderante per uomini e mezzi. E proprio perché organizzata sul campo, immediatamente dopo l’armistizio, da militari e civili, che vollero combattere anche in assenza di ordini superiori, la difesa di Roma può definirsi la prima battaglia della Resistenza italiana. Il primo scontro avvenne, nella notte tra l’8 e il 9 settembre, in località Mezzocammino tra i tedeschi che avanzavano sulla Via Ostiense verso la Capitale e i Granatieri che presidiavano il caposaldo n° 5 (nelle vicinanze di un grosso deposito militare di carburante). In soccorso dei Granatieri decisi, dopo gli ordini ricevuti, ad impedire in ogni modo l’accesso ai tedeschi giunsero immediatamente da Roma rinforzi costituiti da reparti di Carabinieri e della Polizia dell’Africa Italiana (PAI). I combattimenti, nei quali caddero molti Carabinieri e molte guardie della PAI, durarono tutta la notte. Il caposaldo n° 5 venne perduto, poi riconquistato, mentre il fronte della battaglia si estendeva verso la Magliana e Ponte Galena e, sulla riva sinistra del Tevere, verso l’EUR, il Laurentino e la Cecchignola. Per tutta la giornata del 9 settembre le truppe italiane resistettero e riuscirono a respingere gli assalti dei tedeschi. Ma sul far della sera il nemico tornò all’attacco. L’azione si estese verso la via Appia, travolgendo alcuni capisaldi, e raggiunse la Casilina e poi la Prenestina. Alle prime luci del giorno 10 la difesa fu costretta a ripiegare sulla linea Garbatella-San Paolo. Giunse l’ordine di cessare il fuoco: una parte delle truppe si ritirò nelle caserme, a Roma, altri militari, i Granatieri di Sardegna, non rispettando gli ordini ricevuti, continuarono a battersi eroicamente. Comunque un ennesimo contrordine riportò nuovamente in campo le truppe che già il giorno 9 avevano affrontato le artiglierie tedesche sulla via Ardeatina e a Prato Smeraldo. Questa volta il concentramento venne fissato per le ore 12 del giorno 10 nella zona di Piazza Venezia, del Colosseo, Passeggiata Archeologica, viale Aventino e Porta San Paolo che diverrà presto il simbolo dell’estrema difesa di Roma. Furono fatte uscire anche le truppe che erano rimaste consegnate nelle caserme in attesa di nuove disposizioni. Si trattava delle ultime risorse schierate in campo: gruppi di squadroni del “Genova Cavalleria”, un battaglione mortai della divisione “Sassari” (con i soli fucili), tre compagnie del deposito del 4° Carristi, reparti del 2° Bersaglieri, gli allievi Carabinieri, i reparti chimici e le Compagnie Servizi. Dovevano coprire gli accessi alla città dal Testaccio a Porta Metronia, a Porta S. Giovanni e a Santa Croce: i tedeschi stavano, infatti, per irrompere in massa nella capitale. A Roma intanto suonò l’allarme aereo: si saprà poi che si trattava di una misura di sicurezza per allontanare la popolazione dalle strade. Molti romani corsero nei rifugi, ma pochi capirono che cosa in realtà stava accadendo: chi abitava a distanza dalle zone di San Saba, dell’Ostiense, dell’Aventino ebbe difficoltà a interpretare il susseguirsi di boati, di scoppi, di esplosioni, di crepitii di mitraglia che si protrassero fino al tardo pomeriggio quando suonò il cessato allarme e quando le truppe italiane, che combattevano superando ogni limite di eroismo, ricevettero un nuovo ordine, questa volta definitivo, di cessare il fuoco. Infatti, fin dal giorno 9, Kesselring da Frascati aveva minacciato di far radere al suolo la città dai bombardieri della Luftwaffe se Roma non avesse accettato di arrendersi. Ma nonostante la resa ai tedeschi, ben chiara ed evidente dalla bandiera che, sia pure per poco, sventolò sulla torre di Porta San Paolo, gli scontri ripresero per ogni dove, al Testaccio, a San Saba, alla Passeggiata Archeologica, a Porta San Giovanni (i cui fornici furono sbarrati dai tranvieri dell’A.T.A.G. con le vetture presenti sul piazzale e con autobus posti di traverso), a via Sannio, Largo Brindisi, via La Spezia; e ancora oltre, a Santa Croce e Gerusalemme, a Santa Maria Maggiore, via Cavour, via Nazionale, via Gioberti…I civili e i patrioti del Comitato di Liberazione Nazionale si unirono, nella lotta, ai soldati italiani e accanto ai soldati morirono studenti, impiegati, commercianti, operai, tranvieri e ferrovieri. Le prime vittime civili che osteggiarono i tedeschi dopo l’improvviso voltafaccia sabaudo-badogliano avvenuto l’8 settembre del 1943.